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Una riflessione politica sulla sicurezza

Va subito detto che il libro è attraversato, quasi incorniciato, proprio dalla questione ambientale, rilevantissima e in questi giorni sulla bocca di tutti. I due autori la toccano nella prefazione, quando osservano come il «diritto diseguale» del «prima noi», tipico del neoliberismo dominante, derivi dal fatto che «le risorse disponibili non bastano per tutti» (11); la riprendono più volte, ricordando per esempio come da oltre trent’anni politici di destra (Bush padre) e sinistra (Tony Blair) abbiano esplicitamente sostenuto che modello di sviluppo e stili di vita dei cittadini dei loro paesi (ricchi) non sono negoziabili; la confermano nelle conclusioni, quando – senza alcun giustificazionismo – invitano a «interrogarsi sulle motivazioni che portano dei ragazzi al suicidio terrorista», ricordando che la violazione dei diritti umani, l’esclusione e la violenza da essi vissute nei loro paesi «deriva anche dai nostri stili di vita e di consumo insostenibili, e dalle scelte dei governi che per garantirli intervengono ovunque nel mondo» (97). È perciò proprio la questione ambientale e dei limiti di sostenibilità delle azioni dell’uomo sulla terra – letta non tanto nell’ottica della salvaguardia del pianeta, quanto da quella della equa condivisione da parte di tutti i suoi abitanti – che i due autori del libro ci indicano come la scaturigine di molti dei fattori che sono parte della moderna insicurezza.

È il caso della «grande menzogna dello scontro di civiltà» (29), «evocato per stabilire un presunto primato di cultura e giustificare il diritto all’esclusione, a fronte di un modello di sviluppo insostenibile considerato non negoziabile» (32). Una menzogna che si declina poi come «una guerra globale dichiarata più o meno consapevolmente verso il prossimo, nella quale ciascuno è mobilitato a difesa del proprio stile di vita» (32), quella “terza guerra mondiale” di cui spesso parla Papa Francesco. Una guerra che è però di tutti contro tutti, perché le disuguaglianze, macroscopiche a livello globale tra i cittadini dei paesi poveri e quelli dei paesi ricchi, crescono anche all’interno di questi ultimi a causa dello smantellamento del welfare pubblico, della riduzione dei budget per i sistemi sanitari e del taglio delle pensioni, non sostituiti da «forme più avanzate di servizi su base mutualistica o comunitaria» (49). Come ogni guerra, anche questa sospende i diritti universali – sostituiti da privilegi di razza, nazionalità, casta, censo – facendo crescere il numero degli esclusi e amplificando in tal modo, anche grazie ai media, quella “percezione” di insicurezza su cui poi opera chi ha costruito la menzogna, dando però risposte di mera autoreclusività che l’intensificano ancora di più. Citando Paura liquida di Zygmunt Bauman: «l’opinione secondo cui il “mondo là fuori” è pericoloso ed è meglio evitarlo, è più diffusa tra coloro che di rado escono la sera», né c’è modo si sapere se essi non escano perché avvertono il pericolo o lo provino proprio perché non hanno familiarità con le strade la sera…

Ma le paure e le guerre non si possono comprendere se non si elaborano i conflitti, indagandoli. E questo Nardelli e Cereghini lo sanno bene, forti della loro esperienza nei Balcani dopo la guerra intestina della ex Jugoslavia – della quale anni fa avevano dato conto nel loro Darsi il tempo (EMI, Bologna 2008). Un processo, quello dell’elaborazione del conflitto, che richiede «un contesto accettato da tutte le parti e poi conoscenza, fiducia, terzietà, capacità di dialogo e di mediazione, autorevolezza, forza… Non equidistanza, perché in genere i gradi di responsabilità sono diversi, piuttosto equiprossimità. Mettersi nei panni dell’altro, quando l’altro è imperdonabile, non significa relativizzare il male, ma comprenderne la normale e umana complessità» (66-67). Un processo filosofico, verrebbe da chiosare, e infatti non a caso già all’epoca di Darsi il tempo ci fu un mutuo riconoscimento di prossimità tra la mia pratica di consulenza filosofica e quella di elaborazione dei conflitti svolta da Nardelli in Bosnia.

Senza un tale lavoro di «elaborazione condivisa» paure e insicurezze non possono passare. Ma quel lavoro diviene impossibile se si alzano muri per dividerci dai “diversi”, se si usano «le identità in chiave oppositiva, non accettando di riconoscere il dolore dell’altro e dunque la sua umanità» (69), com’è avvenuto spesso nei dopoguerra e come sta accadendo adesso nei confronti dei migranti. Solo «apertura, incontro e conoscenza reciproca», praticate attraverso un «esercizio di apprendimento permanente» che ci faccia riconoscere e comprendere gli altri e le loro culture, sono «l’antidoto alla paura» (70).

Diviene così chiaro come “sicurezza” sia un concetto polisemico, del quale vanno affrontate le molte sfaccettature e non – come si tende a fare – il solo aspetto d’ordine pubblico. In primo luogo c’è, come detto, la sicurezza ambientale, del tutto fuori dal dibattito politico pubblico (a parte dopo le recenti manifestazioni per il clima) nonostante la sua latenza sia all’origine delle grandi migrazioni; per costruirla è necessario «ridurre l’impronta ecologica sul pianeta, dalla sfera globale a quella del comportamento individuale» (87), ovvero «accettare il limite quale misura delle scelte, anziché la crescita infinita» (82). C’è poi la sicurezza sociale, da affrontare in primo luogo tornando a coltivare sanità e previdenza pubbliche, ma – vista la generalizzata crisi fiscale degli Stati – anche connettendole con il welfare comunitario, così da sviluppare un sistema di assistenza sociale territoriale, di quartiere, che faccia interagire istituzioni, professionisti, volontari, cittadini e utenti, in un sistema che ricostruisca anche il legame sociale. Essenziale, quest’ultimo, per far crescere la sicurezza personale, la percezione negativa della quale dipende dall’isolamento e dalla solitudine prodotte dagli stili di vita delle nostre città e che per consolidarsi necessita anche della ricostruzione degli spazi di incontro oggi abbandonati a favore dei periferici «“non luoghi” serializzati, come centri commerciali, villaggi turistici o mercatini di Natale» (85). E ancora, c’è una sicurezza che potrebbe essere definita globale, costruibile attraverso «l’impegno a prendersi cura della pace» (92), anche uscendo «dalla retorica di società senza conflitti» (93) e «andando così oltre l’antimilitarismo di maniera del “senza se e senza ma”, quando al contrario i “se” e i “ma” sono la chiave per capire e abitare i fenomeni di un tempo sempre più interdipendente» (95).

Siamo lontani mille miglia, lo si vede bene, dall’ordinario modo di parlare non solo di sicurezza, ma anche di politica, perché qui si rifuggono le semplificazioni e si invita ad affrontare la realtà nella sua complessità. Senza tuttavia scivolare nell’astratto o nel criptico, sempre con un linguaggio semplice e chiaro, oltre che con riferimenti molto concreti. Gli spunti che ne emergono sono moltissimi, ben aldilà di quel poco a cui è stato possibile accennare in questa breve analisi. Tanto che, se c’è un difetto che si può addebitare al libro, questo è la sua sinteticità, che lascia solo intravedere proposte e scenari possibili i quali, probabilmente, possono sfuggire a chi non conosca gli autori o il contesto teorico e pratico nei quali operano. Un difetto veniale, auspicabilmente superabile con l’ampliamento del dibattito e con l’uscita di altri scritti, che approfondiscano alcuni degli aspetti importanti toccati da questo lavoro.

Firenze, 20 marzo 2019

 

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