«Inverno liquido» su Radio Radicale nella Giornata della Terra
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27 Aprile 2023Comprendere, accettare, adeguarsi: sono queste le parole chiave del dibattito attorno al complesso sistema socio-antropologico costituito dall’intersezione tra i cambiamenti climatici e la vita quotidiana. Perché la volontà di continuare a vivere nei piccoli centri che costituiscono l’ossatura del territorio italiano ed europeo, o di tornarci, c’è. Soprattutto tra i giovani: lo attesta la ricerca Voglia di restare. Indagine sui giovani nell’Italia dei paesi, curata da Andrea Membretti e Sabrina Lucatelli (Donzelli, pagine 214, euro 19,00). Si tratta dell’esito dell’indagine “Giovani dentro” condotta dell’associazione Riabitare l’Italia tra il 2020 e il 2021 alla luce del fatto che «negli ultimi vent’anni la rappresentazione delle aree interne italiane è andata radicalmente cambiando, in relazione a una crescente letteratura scientifica, ma anche divulgativa, che si è andata concentrando non sulla polarizzazione ma piuttosto sull’interconnessione tra montagna e città, focalizzando l’attenzione sui rinnovati flussi (di persone, di merci, di capitali, di conoscenza e di informazione) che attraversano e “cuciono insieme” un sistema socio-territoriale che si comincia a definire come metro- montano». Il progetto “Giovani dentro”, che ha coinvolto numerosi istituti di ricerca, ha riguardato, in forma partecipativa, gli abitanti delle aree interne tra i 18 e i 39 anni. Ne emerge un quadro ovviamente sfaccettato, ma nel quale domina la volontà di vivere in un contesto di vicinanza umana e, al tempo stesso, ambientale.
La retorica del borgo incontaminato, o quella ancor più estrema dell’eremo laico, non trovano posto: c’è molta concretezza, nelle scelte di vita dei giovani che restano o che ritornano. Tessere reti sociali, impegnarsi nella vita comunitaria, perseguire un bene comune visibile: le motivazioni individuali cercano realizzazione in contesti dove c’è ancora molto da costruire, ma nei quali la condivisione dei luoghi e delle memorie, coniugata in modo innovativo alle tecnologie di trasporto e soprattutto di comunicazione digitale, può offrire prospettive inedite. Ma come vivere concretamente in questi piccoli centri, dove le relazioni sociali sono più dirette e dove esiste una rete nella quale l’individuo non è più un’urbana monade isolata ma parte di una società in cui riconoscersi? Non si tratta di ricercare quell’isolamento vagheggiato da qualche scrittore, ma al contrario di sviluppare un modello in cui bilanciare le componenti della propria vita (familiare, lavorativa, sociale) in modo diverso dallo schema imperniato attorno alle grandi città di pianura, sulle cui esigenze sono state fino a ora plasmate gran parte delle politiche sociali ed economiche.
Un modello di integrazione senza cesure, a risalire dalla pianura su su verso le “terre alte”. Maurizio Dematteis e Michele Nardelli hanno raccolto una selezione di esempi concreti di questa progettualità lungimirante nel libro Inverno liquido. La crisi climatica, le terre alte e la fine dello stagione dello sci di massa (DeriveApprodi, pagine 296, euro 20,00). La loro ricognizione parte da una triste constatazione: tutte le piccole stazioni sciistiche a media quota che punteggiano le Alpi e gli Appennini sono in crisi a causa della neve sempre più scarsa. Ma la serie di esempi riportata mostra come possano progettare un futuro superando la monocoltura e sviluppando una proposta integrata che allo sci coniughi altre attività, sia sportive (dall’arrampicata alla mountain bike in estate, dallo scialpinismo alle ciaspole d’inverno), sia gastronomiche, escursionistiche, musicali; una proposta capace di rendere la vita delle località lunga tutto l’anno e non solo nelle ormai poche settimane di neve. E poi se la neve viene, si scia. Senza demonizzare aprioristicamente quella artificiale (aggettivo sfortunato: è fatta di acqua, non di chissà quale alchimia) né gli impianti di risalita, che anzi possono vivere anche al di fuori della stagione invernale mettendosi appunto al servizio di altre attività.
Un esempio tra i tanti: a Prali in Val Germanasca (Piemonte) la seggiovia rimane aperta tutto l’anno tutti i giorni, si scia finché si può spingendosi fino alla primavera, e poi subito si prepara la versione estiva della località fatta di sentieri, tracciati ciclabili, punti di sosta. Bar, ristoranti, negozi e noleggi aperti tutto l’anno, biglietti per gli impianti a costi minimi, un corollario di agriturismo e piccole attività: «Certo i margini di guadagno rimangono risicati – precisa Inverno liquido – ma d’altra parte nessuno in paese si aspetta altro che tenere aperta la propria attività». Anche l’alta montagna è un sistema vivo, parte di un paesaggio che l’uomo ha tenacemente forgiato generazione dopo generazione plasmando un originale contesto antropologico in cui natura e cultura si intersecano. Archiviato il modello industriale della stazione sciistica quale estensione in quota della città, da essa del tutto dipendente, si guarda ora a una gestione integrata del territorio che dalla pianura sfuma verso l’alto con particolare attenzione alle aree finora trascurate dalla progettualità, come i fondovalle o la mezza montagna.
Un aiuto in tal senso può venire da una maggior attenzione agli esempi virtuosi che arrivano da altre parti d’Europa, superando la tendenza, ancora presente in tanti studi, di concentrare lo sguardo sui casi e soprattutto sulle magagne italiane. Paesi alpini e scandinavi offrono esperienze buone anche da copiare: per esempio, in Austria e Svizzera anziché smantellare, come è stato fatto in Italia, gran parte del sistema ferroviario che risaliva le valli, al contrario l’hanno potenziato e gli hanno dato nuova vita come infrastruttura di prossimità.
Vito Teti, pioniere dell’antropologia italiana delle aree interne, nella nuova edizione dell’ormai classico Il senso dei luoghi. Memoria e storia dei paesi abbandonati (Donzelli, pagine 594, euro 34,00) precisa il celebre concetto di “restanza” da lui coniato, declinandolo al presente: «Un modo di rimanere che è dinamico, che è dialogico, che è utopico. Una restanza si configura sempre, implicitamente, come il nucleo fondativo di nuovi progetti, di nuove aspirazioni, di nuovi sogni». Gli studi e le esperienze che la riflessione sulle aree interne sta raccogliendo in questi anni dimostrano che questi sogni possono essere, se avvicinati con intelligenza e senza dogmatismi (preconfezionati magari in città), davvero concreti e vivi.
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