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«Inverno liquido» nell’Appennino Meridiano

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L’incipit del capitolo “L’Appennino meridiano, fra spopolamento e terre dell’osso”.

Il senso di sconfitta non mi impedisce però

di immaginare cure e terapie.

Non imbellettamenti, non accanimenti terapeutici,

ma «passione» (quotidiana e notturna)

unita a consapevolezza, a desiderio di progettare,

a immaginazione, a sogno,

quasi come accade agli ultimi abitanti.

Vito Teti

Le terre alte lungo la dorsale appenninica rappresentano uno spaccato non trascurabile di questo paese. Un racconto delle sue contraddizioni, in primo luogo. Di grandi potenzialità, ambientali e culturali, come di emigrazione e di precarietà. Di cantieri stradali aperti chissà quando e diventati strutturali, di tetti in amianto su capannoni abbandonati, di edifici nati vecchi dai quali spuntano armature in ferro ormai arrugginite che prevedevano ritorni mai realizzati. Forse un piano di ripresa e di resilienza sarebbe dovuto partire da qui.

Nello spostarci verso le terre dell’osso, la suggestiva espressione con cui Manlio Rossi Doria descrive le aree interne del Mezzogiorno, vengono in mente le parole di Vito Teti: «La scelta dell’abbandono produce sempre uno scarto. La fuoriuscita non è mai pulita, netta, senza attriti. L’abbandono è un’esplosione, una detonazione lenta che frammenta, frattura, disintegra, incenerisce. L’abbandono pone in questione la struttura del mondo che si lascia; mette in tensione le relazioni; modifica la densità dei luoghi, cambia la morfologia dell’abitato e degli spazi; il loro aspetto formale e i loro usi. Soprattutto, qualcuno resta. Gli abitanti dei paesi calabresi dell’interno si aggirano come ombre e fantasmi in attesa del peggio. Gli ultimi abitanti che resistono sono spaesati nei paesi, esuli in patria, stranieri a loro stessi»… „

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