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E mentre cercavo di darmi il coraggio di andarlo a trovare non appena fossi rientrato, una nuova telefonata, questa volta di Gabriella per informarmi che Ottorino se n’era andato. Così è il vivere, sempre di fretta, senza mai rendersi conto fino in fondo della nostra caducità.

 

Dalla parte dei più deboli

Con Ottorino abbiamo vissuto lo stesso tempo. Pressoché coetanei, ci eravamo conosciuti che eravamo ventenni negli anni ’70, quando ci accomunava la militanza politica e tutto sembrava nelle nostre mani. «Quando tutto sembra grande e importante» scriveva Andrea Zanzotto a proposito della giovane età. Per la verità ci rendemmo conto ben presto che quella scalata al cielo sarebbe stata più impervia del previsto. E così, pur nella convinzione profonda delle utopie concrete in cui credevamo, i percorsi delle nostre vite divennero almeno in parte diversi.

Quello di Ottorino fu l’impegno professionale di giuslavorista, in stretta connessione con il sindacato, un ambito nel quale univa la passione per la difesa dei più deboli ed il rigore con cui seguiva le cause di lavoro in una fase delicatissima delle relazioni industriali o comunque del rapporto fra le parti sociali.

Il che non gli impediva di estendere la propria attenzione alla difesa delle battaglie sociali e civili, ritrovandoci così dalla stessa parte fin dentro le aule dei tribunali. Ed anche quando nel merito non si condivideva un determinato agire, non venivano mai meno il reciproco riconoscimento sul piano dell’onestà intellettuale.

Eravamo già nel pieno degli anni ’80, a guardar bene molto più devastanti del decennio precedente che, al contrario della vulgata corrente, aveva invece capitalizzato sul piano delle grandi riforme gli anni della partecipazione, delle lotte e del cambiamento. Anni difficili che segnarono la sconfitta delle istanze egualitarie, la devastazione delle espressioni organizzate nei luoghi di lavoro, il venir meno del protagonismo sociale, la profonda lacerazione a sinistra che il craxismo (e non solo) aveva prodotto. Anni nei quali tutto quello che aveva a che fare con lo stare dalla parte degli ultimi veniva guardato con sufficienza, quasi fosse un residuo del passato.

In Trentino coincise con la crisi di un modello industriale estraneo al territorio. La tragedia di Stava rappresentò nella sua drammaticità uno spartiacque nell’interrogarsi sulla tenuta dei paradigmi dello sviluppo e del rapporto fra ambiente e lavoro. Paradigmi che vennero scalfiti solo in parte, anche per l’incapacità di guardare oltre (penso alle perplessità in una parte del sindacato verso l’idea iniziale del “Progettone”), ma nonostante ciò nulla fu più come prima.

Potevamo reagire a difesa delle conquiste, oppure cercare strade nuove. Cercammo di percorrerle entrambe, ma non era facile e forse nemmeno possibile. Credo altresì che molto di quel che ne seguì anche sul piano della sperimentazione politica in questa terra abbia qui le proprie radici.

 

La nascita degli Uffici legali

Con Ottorino ci perdemmo di vista, ma sapevamo uno dell’altro. Sapevo del suo impegno nel costruire l’Ufficio vertenze – legale della Cgil (che non era ancora “del Trentino”), laddove in precedenza ogni categoria si muoveva su questo piano per proprio conto. «Per comprendere la mole di lavoro – mi ricorda Ferruccio Morandi (che di quell’esperienza fu con Ottorino protagonista) – basti pensare che tutto era cartaceo, ogni vertenza o causa individuale era un faldone, la giurisprudenza bisognava andarsela a cercare negli archivi dei Tribunali sparsi sul territorio. Avevamo a che fare con almeno trecento contratti nazionali di lavoro e mettere insieme un pool di competenze era fondamentale. Quell’intuizione fece scuola sul piano nazionale».

Ferruccio mi racconta del viaggio che fecero insieme con Ottorino a Roma nei primi anni ’80, in occasione dell’incontro nazionale delle Camere del Lavoro proprio sull’istituzione degli Uffici legali e dello stupore con cui venne accolta dai presenti – giuslavoristi di prestigio – l’esperienza che in Trentino era stata realizzata. Ottorino e Ferruccio avevano a quel tempo sì e no trent’anni e di quel viaggio spesso si ritrovavano a ricordare, oltre all’emozione di quell’incontro, anche il ritorno e il bottiglione di Chianti che per la soddisfazione si erano scolato nel vagone ristorante.

Per quel che mi riguarda, sapevo di una persona seria sul piano professionale (mai disgiunta in Ottorino dalla passione politica) che nel momento in cui decideva di seguirti lo faceva sul serio e con competenza, senza mai illudere le persone sull’esito di una causa. Ma anche la sua determinazione nel dirti “ci proviamo”.

Fra queste ricordo quando difese Giorgio Rigotti nella causa con l’Alimar, azienda che gestiva diverse mense aziendali fra le quali quella della Michelin a Trento. Giorgio era stato licenziato perché si era rifiutato di lavare i piatti con un prodotto che scadente era dir poco. Tanto che, avviata la causa, l’azienda lo aveva fatto sparire, per poi presentarsi al dibattimento con un certificato di analisi nel quale si asseriva che tutto era in regola. Ma Giorgio e Ottorino nel frattempo erano riusciti a procurarsi a Milano una confezione del prodotto. «Al momento opportuno – racconta Giorgio – Ottorino tirò fuori dalla sua cartella una delle confezioni incriminate chiedendo al giudice se lui avrebbe mai lavato i piatti di casa sua con quella schifezza». Il giudice non ebbe dubbi e Giorgio venne reintegrato nel suo lavoro.

 

Gli anni del rimescolamento

Quando il castello novecentesco crollò cercammo di essere “presenti al nostro tempo”, nell’accezione che Hannah Arendt dà di questa espressione. Erano gli anni in cui, finita una storia, le vecchie appartenenze si andavano scomponendo e il ricomporle non era affatto scontato. Fu un passaggio dove nella sinistra trentina tutto si mise in movimento, con la nascita di Solidarietà e di un PDS che intendevano aprire le storie di provenienza ad un tempo nuovo, poi con l’esperienza elettorale di Senza confini e di seguito ancora con decine di appelli affinché il patrimonio di pensiero e di coesione sociale potesse confluire in Trentino in un’inedita sperimentazione politica.

Che ciò avvenisse non era scritto. Come non lo era che questo processo di scomposizione e ricomposizione si realizzasse non solo a sinistra ma anche nell’area del popolarismo con la nascita, qui prima che altrove, della Margherita. Questo ed altro (riconducibile a valori profondamente radicati nel tessuto sociale) rese possibile fin dai primi anni ’90 l’aprirsi di una nuova stagione politica non appiattita sul quadro nazionale e che sarebbe durata quasi vent’anni. Non senza contraddizioni, certo, ma se lo spaesamento e il “prima noi” qui non attecchirono con le conseguenze che conoscemmo nel resto del nord, lo si deve anche a questa capacità di percorrere strade originali.

Di questa sperimentazione Ottorino fu parte importante. «Ricordo le discussioni che animavano la direzione del PDS e poi dei DS negli anni in cui sono stato segretario provinciale» racconta Stefano Albergoni. «Amava la dialettica politica, il genuino confronto fra le idee, diverse o contrapposte che fossero. Nel rispetto dell’altro e delle regole democratiche e quando questo non avveniva la sua reazione era veemente». «Ottorino non era attento solo alla difesa delle conquiste dello stato sociale – prosegue Stefano – ma anche all’innovazione della nostra autonomia ed in particolare credeva nella riforma dello Statuto e, in questa chiave, nella riorganizzazione delle forme politiche su base territoriale. “Unire la sinistra” era un suo mantra, andando oltre quella concezione monolitica che ancora segnava l’eredità precedente. E quando il gruppo di trentenni di cui facevo parte si candidò alla guida del PDS con un programma politico che si ispirava a questi due obiettivi politico-istituzionali (riformare la sinistra per riformare l’autonomia), lui fu uno dei nostri più convinti sostenitori».

 

La riforma che avrebbe cambiato il Trentino

E qui ci incontrammo di nuovo. Il Trentino divenne un terreno avanzato di autogoverno nel quale sperimentare quell’autonomia integrale che del “secondo statuto” era l’essenza. Richiedeva l’assunzione di sempre nuovi livelli di responsabilità e una classe dirigente diffusa all’altezza della sfida e fu in questo contesto che si avviò la riforma istituzionale che nelle intenzioni avrebbe dovuto trasferire una parte importante delle competenze autonomistiche sul territorio. Ottorino di questo disegno fu uno dei protagonisti.

Quando nel 2003 divenne consigliere provinciale e regionale, eletto in quella lista della sinistra che cercava di unire tutte le sensibilità uliviste in un progetto politico che aveva l’ambizione di andare oltre le elezioni, la passione e il rigore che metteva nella sua attività professionale Ottorino la trasferì nell’impegno istituzionale e nel governo della Provincia Autonoma di Trento nel ruolo delicato di assessore alle riforme istituzionali.

Per anni avevamo messo in guardia dal centralismo provinciale, come a dire che anche nella “autonomissima” Provincia di Trento non eravamo di certo esenti da quel male che tradizionalmente addebitavamo al centralismo romano. Mano a mano che crescevano le nostre prerogative autonomistiche il rischio di un apparato centrale così forte da delegittimare (e deresponsabilizzare) i territori diveniva sempre più evidente. Ecco dunque la necessità di un corpo intermedio fra Provincia e Comuni, verso il quale derubricare poteri programmatori e gestionali in capo alla PAT e al tempo stesso sollevare i Comuni dai rischi di localismo e di condizionamento dagli interessi dei troppi giardini individuali.

Una riforma di sistema quella che, pur fra mille contraddizioni, Ottorino riuscì a portare a termine nel 2006 con l’istituzione delle Comunità di Valle. Non nascondo che non sempre la si pensava allo stesso modo, Ottorino a sostenere la drastica riduzione del numero dei Comuni, il sottoscritto a pensare che nella tenuta rispetto allo spaesamento anche le più piccole comunità locali avrebbero potuto svolgere un ruolo importante nel garantire quel tessuto culturale e sociale nel quale sentirci meno soli. Ne parlammo spesso durante la campagna elettorale provinciale del 2008, consapevoli che la legislatura che si stava aprendo sarebbe stata decisiva nell’implementazione della riforma. Ma Ottorino non venne rieletto.

Quella legge pure imperfetta pestava i piedi a troppa gente. Alla burocrazia del palazzo dove s’annidavano (e s’annidano) poteri forti, innanzitutto. Alla prassi accentratrice di una amministrazione che non è disponibile a mollare quote di potere. E, nel contempo, a quei legami perversi di scambio che si manifestano nella destinazione urbanistica e di controllo sociale da sempre ascrivibili ai Comuni. Resistette agli strali dell’opposizione e, successivamente, pure al referendum abrogativo proposto dalla Lega Nord e dall’opposizione di centro-destra, ma nulla potè prima di fronte al processo di anestetizzazione che vedeva il convergere degli apparati provinciale e comunali e poi allo svuotamento da parte della stessa maggioranza ma ora a guida PATT, partito che quella riforma aveva a malapena sopportato.

 

Quel che rimane…

Penso spesso a quel che rimane del nostro agire. E penso di ben comprendere l’amarezza nel non veder riconosciuto il proprio lavoro, avendola provata in prima persona. Senza contare che poi la vita ti riserva prove che mai avresti immaginato di dover affrontare. Quando se ne vanno le persone care ed amate, quando pensi di poter ricominciare, quando scopri di aver ancora voglia di vivere e di amare e poi di nuovo ti crolla il mondo addosso.

Quel che rimane è ciò che siamo stati, le cose in cui abbiamo creduto, le relazioni che abbiamo coltivato, gli amori che abbiamo curato. Quel che abbiamo fatto non richiedeva nulla in cambio, valeva per quel che era, consapevoli del grande privilegio di aver potuto spendere le nostre vite senza mai risparmiarsi e senza mai calcolo alcuno.

Tantissimo. I figli che hai cresciuto e che ora ti piangono, le persone che ti hanno voluto bene, la gente di questa terra… non possono che essere orgogliosi di te, caro Ottorino.

 

Trento, 13 luglio 2017

 

3 Comments

  1. Renata Greggio ha detto:

    Caro Michele, il tuo scritto mi ha emozionata e commossa. Ci ho sentito la dimensione di affetto e stima per Ottorino e la dimensione collettiva che oggi mi manca tanto e che tu lavori pazientemente per ritessere. Di tutto questo ti sono grata. Ti abbraccio. A presto. Renata

  2. Nives Merighi ha detto:

    che bel ricordo Michele! lo condivido perchè non sarei capace di trovare parole così appropriate per quel che riguarda Ottorino e anche per quello che riguarda la nostra storia “nella solitudine della politica”! ciao

  3. Roberto Bortolotti ha detto:

    “Quel che rimane è ciò che siamo stati, le cose in cui abbiamo creduto, le relazioni che abbiamo coltivato, gli amori che abbiamo curato. Quel che abbiamo fatto non richiedeva nulla in cambio, valeva per quel che era, consapevoli del grande privilegio di aver potuto spendere le nostre vite senza mai risparmiarsi e senza mai calcolo alcuno.” Bellissimo ricordo. Grazie Ottorino, Grazie Michele.