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Il Festival e quell’urgente cambio di sguardo

Andrebbe poi considerato che vedere centinaia, talvolta migliaia di persone in fila (e in allegra compostezza) per assistere agli eventi proposti in un contesto di forte crisi delle forme partecipative è decisamente un fatto che qualifica positivamente la nostra città. Insieme ad altre manifestazioni di qualità che si svolgono nel capoluogo trentino – penso al Filmfestival internazionale della Montagna, alla straordinaria capacità attrattiva del sistema museale e del Muse in particolare, alle giornate di Trento Smart City o dell’Europa… – il Festival dell’Economia ha contribuito a fare di Trento una città migliore e più bella.

Nell’affermare questo, credo sia altresì opportuno – dodici anni sono un arco di tempo sufficiente per farlo – provare ad interrogarsi su come questa manifestazione abbia saputo lasciare il segno, interagendo con il pensiero (economico, ma non solo) di chi oggi ha nelle proprie mani il destino di milioni di esseri umani o anche solo di piccole comunità come la nostra. Ovvero sull’autorevolezza che il Festival dell’Economia ha saputo esercitare nel produrre quei cambiamenti di paradigma che il presente richiede con sempre più drammatica urgenza.

Questi dodici anni, anche “solo” sul piano dei processi dell’economia, non sono stati un tempo qualsiasi. Anzi. Potremmo dire che il Festival è stato positivamente stressato da “tempi interessanti”, per usare l’espressione tanto cara ad Hannah Arendt.

Epperò sotto questo profilo a me sembra che il bilancio non sia altrettanto positivo. Non ho visto uscire dai luoghi del festival quel cambio di sguardo, tanto meno premi Nobel o esponenti di primo piano del mondo politico o della cultura usare questo palcoscenico per cogliere i segni del tempo. Nemmeno l’incombere della crisi finanziaria globale venne compreso, così come i grandi avvenimenti che l’economia non poteva certo considerare estranei, come le primavere, i processi migratori, la crisi ecologica, l’involuzione dell’Europa politica.

E poi c’è un’altra questione, non meno significativa. Il Festival dell’Economia è stato ed è un evento frequentato, certamente interessante, ma pur sempre un evento. Nel senso che non ha saputo rappresentare un percorso di una comunità che avrebbe potuto crescere con il suo festival non da un’edizione all’altra ma in un itinerario capace di pulsare con il territorio lungo i suoi dodici anni di vita. Così il Festival avrebbe potuto misurare il suo impatto non solo nelle sue ricadute materiali ma anche in termini formazione di una comunità esigente anche verso i propri decisori.

E’ ora che il Festival s’interroghi su questi aspetti oltre la propria autoreferenzialità. Che provi a darsi delle tesi rischiose da sottoporre a verifica piuttosto che galleggiare. Che provi a stressare i personaggi che invita piuttosto che questi stessi personaggi vengano sin qui a riproporre il proprio compitino già collaudato e di sicuro effetto. Che provi dunque ad essere più esigente con se stessi e con gli altri.

Se il Festival dell’Economia saprà fare questo non sarà solo uno fra i tanti espedienti con cui le città si promuovono in un moltiplicarsi di eventi competitivi. Motivo per cui non solo esserne orgogliosi ma anche per pulsare con la città e non di fuggirne. Come noi in queste giornate di viaggio lungo il limes alpino del difficile rapporto fra città e montagna.

1 Comments

  1. Paolo Domenico ha detto:

    Ad es caro Michele sarei interessato ad approfondire il tema del debito pubblico anche alla luce del libro di Marco Bersani. Tesi non nuovissima ma che meriterebbe qualche riflessione. Se ne sai qualcosa – festival a parte – parliamone. Ciao Paolo