Montagna, il futuroè ricucire con la città?
26 Aprile 2023Se neè andato Vittorio Bellavite, testimone curioso e inquieto del nostro tempo
28 Aprile 2023Mentre Hexxus è la personificazione degli effetti negativi dell’attività dell’uomo, sullo sfondo, a minacciare la Comunità della foresta, è la Città, è la civiltà industriale che preme che conquistare altri spazi e altre risorse; sullo sfondo si confrontano i temi del progresso e della difesa dell’ambiente, dell’economia e della sua sostenibilità. Trent’anni dopo lo scenario del confronto tra progresso e ambiente si sposta. Cambia il contesto: non più la foresta ma le aree agricole; cambiano i protagonisti: le pale eoliche o le distese di pannelli solari prendono il posto dell’infernale macchina tavolatrice; ad essere minacciato non è più l’ecosistema della foresta ma il paesaggio, l’uso del suolo, la cultura e le tradizioni secolari. Ad avvisarci di questa nuova minaccia sono le arti visive: Orso d’oro al Festival di Berlino 2022 è stato il film spagnolo Alcarras, l’ultimo raccolto. E’ il dramma di una famiglia che da lunga tradizione coltiva alberi da frutta in Catalogna. La vita dura dei campi è narrata con una sorprendente resa di autenticità. L’armonia viene distrutta dalla decisione del proprietario del fondo di cedere i terreni per la realizzazione di un parco fotovoltaico. Dalla piccola protagonista alla nonna si delineano i singoli personaggi nei loro tratti e le loro reazioni alla minaccia che incombe. Il nonno non si consola per non aver messo per scritto l’accordo di cessione del fondo a lui, ma erano tempi dove bastava una stretta di mano; il cognato va ad informarsi per essere assunto come operaio dalla società installatrice; la madre, il personaggio più equilibrato, tenta di ricomporre la famiglia; il padre, responsabile dell’azienda agricola, reagisce con disperazione alternando momenti di furia a momenti di ruvida dolcezza o ad improvvisi cedimenti e non accetta di trasformarsi in un operaio: prevale l’orgoglio di mantenere un mestiere che è fatto di fatica e di conoscenza.
Se il sole fosse un bracciante si sveglierebbe più tardi, se il conte fosse un bracciante moriremmo di fame, cantano in catalano la bimba e il nonno. E così il film ci spiega che le piante vanno potate per mantenerle basse e raccogliere la frutta con uno sgabello, ci mostra che i diversi tipi di pesca hanno un diverso tempo di maturazione, prima la pesca gialla, poi la nettarina poi la tabacchiera e quindi la percoca. Il film ci avverte che la vita in campagna non è una favola, che la difesa del proprio lavoro può essere spietata come la caccia notturna ai conigli selvatici. Consegna all’innocenza della bambina il compito di assolvere la comunità quando recita la preghiera ad un coniglio ucciso, per aiutare la sua anima a liberarsi; preghiera appresa da un bracciante africano. Ma già l’innocenza è persa da sua sorella e da suo fratello, più grandi, quando portano un carico di conigli morti davanti alla porta del proprietario del fondo, colpevole della loro imminente disgrazia. E c’è la protesta degli agricoltori contro la grande distribuzione, rea di imporre prezzi di acquisto inferiori ai costi di produzione. E venti volte inferiori ai prezzi di vendita al dettaglio. Ed è qui, in un’attività produttiva scarsamente valorizzata, che si insinua il Male con le sembianze di oggi, la suadente offerta di acquisto dei terreni per collocarci i pannelli solari. Alla fine la famiglia si ritrova, si ricompone nei solidi valori di vicinanza, di legame, di allegria, nel frastuono delle ruspe che abbattono il pescheto.
Il tema del conflitto è ripreso in un altro film spagnolo As Bestas: questa volta una coppia di agricoltori francesi, stabilitisi in Galizia, si oppone alle pale eoliche volute, al contrario, dall’intera comunità. C’è il tema del progresso, sempre rappresentato dalle fonti rinnovabili, e la difesa dell’ambiente. Ma qui il tema si intreccia con quello dello straniero e l’intolleranza si impenna fino ad innescare la violenza. L’intolleranza allo straniero ricorda il film di Giorgio Diritti il Vento fa il suo giro dove una famiglia di allevatori si trasferisce dalla Francia in una valle occitana del cuneese. La coppia scappa dal paese di origine sui Pirenei dove avevano deciso di costruire una centrale nucleare. Neomigranti energetici. La coppia dovrà poi andarsene anche dalla nuova casa perché non accolta dalla comunità.
Non è la prima volta, né sarà l’ultima che l’avanzamento tecnologico confligge con la difesa dell’ambiente, nel suo significato più ampio.
C’è chi si lamenta del favore che le rinnovabili incontrano nella narrazione generale dagli spot pubblicitari, ai siti internet, al cinema, agli intellettuali, alla politica tutta: immagini di paesaggi futuribili con ordinate wind farm, affascinanti skyline dei crinali con i piloni e pale in movimento. Totale accettazione anche per l’automobile che occupa buona parte degli spazi pubblicitari ed è protagonista nel cinema come nello sport. Ma mentre il mito dell’auto, fatto di velocità, libertà, simbolo di successo, resiste e non invecchia, nonostante sia portatore di enormi effetti negativi, dall’inquinamento alla sicurezza, dall’occupazione di suolo alla sottrazione di ingenti quantità di materie prime, alcuni registi hanno trovato il coraggio di opporsi al messaggio distorto pubblicizzato sulle rinnovabili. In una puntata Imma Tataranni, sostituto procuratore a Matera indaga su un omicidio. Il sospettato, un ex professore di letteratura americana trasferitosi con la famiglia per vivere a contatto con la natura, in tre minuti, con poche scene e dialoghi essenziali, porta le ragioni a sua discolpa. E il messaggio è molto efficace: c’è il rumore costante delle pale in movimento che non ti fa sognare, c’è la terra arsa, ci sono gli uccelli uccisi, c’è tristezza e rassegnazione.
Ma si rischia di commettere l’errore di mettere sul banco degli imputati le fonti rinnovabili. Il solare non ci libera dal male. Lo ripeto costantemente nei miei interventi sulle comunità energetiche. Sono trent’anni che si installano pale eoliche sulle dorsali appenniniche e non so quando le regioni si siano dotate di una legislazione per perimetrare le aree vocate alla produzione eolica o a quella solare. Di sicuro l’effettiva applicazione dello strumento VIA, in vigore dal 2006, avrebbe potuto evitare molti dei danni che oggi vediamo. Senza alcun contrasto da parte degli organi pubblici, si è lasciata ampia libertà ai ricchi fondi nord-europei di trattare direttamente con i proprietari dei terreni. Con l’aggravante che le rinnovabili vengono finanziate anche in quei casi dove non rappresentano elemento strategico per la futura transizione a causa della loro scarsa producibilità: il sacrificio del danno all’ambiente, se deciso, dovrebbe essere compensato da un’effettiva produzione elettrica. In Italia si incentivano centrali eoliche anche in luoghi scarsamente ventosi.
Come ogni altra forma di interazione economica anche le rinnovabili sono soggette al business. Lasciato senza regole il business prende la via più breve per fare profitto non quella più rispettosa. Con le rinnovabili non è la prima volta che la pianificazione del territorio la decidono gli imprenditori e non le Regioni o le comunità locali. Non conosco le altre città, ma a Roma lo sviluppo urbanistico è fortemente deciso dai costruttori. E gli immobiliaristi decidono sulla composizione socio-economica dei quartieri. E la grande distribuzione decide come spartire la catena del valore dei prodotti agricoli. Così come i centri delle città si spopolano per la gentrification, le campagne si spopolano perché si preferisce la città al lavoro nei campi e questi si riempiono di pannelli solari e di pale che ruotano.
Per il Forum Ambrosetti del 2022 è stato realizzato uno studio in collaborazione con A2A per stimare il potenziale energetico delle fonti rinnovabili, con le attuali normative in vigore. Lo studio ha realizzato un modello per stimare la potenza solare installabile sui tetti (considerando l’orientamento, la tipologia a falda o piana, i vincoli) e a terra, nei territori già compromessi (cave, miniere esaurite, discariche esaurite, aree degradate dismesse, strade e ferrovie, aree agricole non utilizzate), il repowering e il revamping degli impianti esistenti; la potenza eolica aggiuntiva considerando i vincoli, le aree protette, un livello minimo di ventosità del sito; il repowering degli impianti idroelettrici esistenti. Complessivamente si avrebbe l’occupazione di 240.000 ettari, con un uso del suolo pari allo 0,8% della superficie complessiva portando la potenza rinnovabile installata a 178 GW e una produzione cumulata di 302 TWh all’anno. Per assorbire l’over-generation delle rinnovabili non programmabili, la produzione eccedente la richiesta della rete, hanno calcolato che sarà necessaria per ogni GW aggiuntivo di potenza rinnovabile una capacità di accumulo giornaliera addizionale di 1,5 GWh.
La considerazione finale è che valorizzando le opportunità offerte dalla produzione rinnovabile decentrata, lo switch da fossile ad elettrico che permette una maggiore efficienza dei sistemi di conversione energetica (forni, impianti climatizzazione ecc.), l’intensificazione delle azioni di risparmio energetico ed aumento dell’efficienza, si possa ipotizzare una proiezione dei consumi globali poco oltre i 500 TWh. La potenza rinnovabile stimata permetterebbe allora un’autonomia di circa il 60% al 2030.
Si prospetta quindi un’ipotesi credibile di transizione, con le sue criticità, con l’impegno che dovrà essere costante, con l’impulso a colmare i ritardi tecnologici su alcuni aspetti fondamentali, quali gli accumuli e l’adeguamento delle reti. Alternative a questa ipotesi non si intravedono: non è un’alternativa il nucleare di quarta generazione e neanche l’eterna promessa della fusione. Contrastate le rinnovabili, in assenza di ipotesi alternative, il futuro rimarrà sempre fossile.
La transizione energetica richiede che tutti gli attori che parlano al pubblico facciano la loro parte. E’ bene che gli artisti pongano dubbi ed è bene che le associazioni contrastino le politiche errate. Entrambe, a mio parere, dovrebbero comprendere l’estrema importanza dei modelli culturali legati all’energia. Una parola che dovrebbe essere maneggiata con cura è il termine consumo. La prima difesa del consumatore è la possibilità di affrancarsi dallo schema lavoro-consumo-lavoro, di non essere più consumatore. Se consumo per me è solo una questione di quanto mi costa il kWh e di quale reddito dispongo; se utilizzo allora sono consapevole di come impiegare il kWh e posso evitare un uso non necessario e decidere di richiederne di meno. Posso capire che un’utilities dica che il suo obiettivo è quello di permettere ai consumatori di disporre di quanta energia elettrica chiedono, lo accetto di meno se lo dice un’associazione ambientalista. La sostenibilità male si accoppia con il consumo. Non basta l’impegno per efficienza, produrre di più con la stessa energia: per la transizione energetica è fondamentale andare oltre il concetto di efficienza e agire per produrre lo stesso con meno energia. Che sarebbe poi l’unica maniera per l’Italia per non dipendere dagli approvvigionamenti, di energia o di materia, dall’estero.
E’ corretto porsi degli interrogativi sulle aberrazioni che anche il nuovo porta con sé. Temo che l’azione se intesa in termini generali e sistematici generi confusione nel vasto pubblico, generando un’opposizione alle rinnovabili, quando invece occorre veicolare messaggi positivi affinché gli sforzi di tutti vengano reclutati per riconvertire usi, consumi, atteggiamenti nei confronti dell’energia oramai calcificati da decenni. Questo perché le rinnovabili da sole, anche se ricondotte nei luoghi consentiti, non ci potranno salvare.