Afghanistan immaginario
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17 Novembre 2021Sono un falegname di 40 anni e da 15 anni faccio l’artigiano. Ho iniziato dal nulla la mia attività e negli anni ho consolidato una piccola nicchia produttiva e cambiato svariate sedi di lavoro. Recentemente, allo scadere dell’ennesimo contratto d’affitto, mi sono deciso a fare un passo per acquistare una porzione di capannone. L’emergenza pandemica ha messo sul lastrico diverse attività e lo Stato, per correre ai ripari, ha dato vita a degli strumenti di garanzia che vanno a coprire gli investimenti aziendali fino all’80%. Sfruttando questa opportunità e facendo uno sforzo economico non banale ho contattato la banca del mio territorio, una Cassa Rurale con la quale collaboro da vent’anni.
Per poter concludere l’operazione, la banca, una volta concessami da Roma la garanzia statale, ha chiesto che un terzo soggetto andasse a garantire ciò che la garanzia statale non copriva. Ciò che mi ha lasciato basito è però che la banca non si sia accontentata di ricevere a garanzia una firma per il rimanente 20% ma che abbia preteso che l’investimento venisse ulteriormente coperto da una garanzia fideiussoria del 50% sul totale. E’ proprio qui che il sistema mostra il fianco ostacolando, forse impossibilitando, il principio di mobilità sociale. Parlo di quel principio che si evince nel primo passaggio della nostra Carta Costituzionale. “L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro”, dice la nostra legge fondamentale. È chiaro però che per dar corpo a questo sacrosanto principio occorre mettere le persone volenterose nelle condizioni di poter avere accesso a tutti gli strumenti di cui hanno bisogno per poter intraprendere il percorso che permetta loro di disarticolare la propria posizione sociale proiettandola verso l’alto.
Se il sistema creditizio prosegue la corsa verso questa direzione nella quale il credito viene concesso solo alle persone che, in virtù di una fortuna della loro vita, possiedono qualcosa da dare in garanzia o fanno parte di una rete parentale in cui qualcuno può permettersi di garantire per loro, il risultato è quello di tagliare fuori da uno strumento fondamentale e determinante persone volenterose disposte a rimboccarsi le maniche per creare con il sudore della propria fronte lavoro per sé e per gli altri.
La stessa iniqua questione riguarda da vicino chiunque abbia intenzione di acquistare casa. Se il finanziamento viene richiesto da due dipendenti pubblici con contratto a tempo indeterminato, il tasso di interesse, dato il rischio minore per la banca, sarà più vantaggioso. Se la stessa coppia può portare a garanzia solo contratti precari, mansioni artigiane, o lavori a tempo determinato, per le tabelle economiche il rischio è maggiore ed il tasso proposto sarà conseguentemente più alto, innescando un meccanismo perverso in cui chi ha di più, o sta meglio, può spuntare condizioni economiche migliori. Tutto questo non è una novità. Sono tasselli perversi del sistema economico capitalista.
Ciò che rappresenta invece una novità è il venir meno delle banche territoriali quali attori di contenimento di queste dinamiche. Gli accorpamenti degli ultimi anni hanno del tutto eliminato la funzione di questi soggetti trasformando il ruolo che le Casse Rurali hanno esercitato fin dalla loro fondazione portandole sempre di più ad essere banche commerciali che anziché dar credito alle persone in base alla loro storia e alla fiducia che nella comunità queste si erano guadagnate, concedono finanziamenti sulla base di tabelle e parametri matematici. Vale la pena ricordare che i principi fondativi delle Casse Rurali erano basati, a fine ottocento, sul mutualismo di stampo cattolico, non sull’algebra e sulle funzioni.
In tutto questo c’è un rischio enorme e la ricaduta di queste dinamiche riguarda tutto il tessuto sociale ed economico delle comunità.
Se sul territorio esiste un ragazzo, figlio di famiglia svantaggiata, che vuole affrancarsi dalla sua posizione sociale attraverso il lavoro e vuole aprire una bottega per la rivendita del pane o un’officina per aggiustare biciclette oppure un atelier in cui cucire vestiti dovrà necessariamente sviluppare un progetto e rivolgersi a chi questo progetto lo andrà a sostenere finanziariamente. Se le banche territoriali, che un tempo erano attori fondamentali del terzo settore, non svolgeranno questo ruolo abbiamo due strade. La prima è quella di avere per le vie dei nostri paesi e delle nostre città una bottega, un’officina o un atelier in meno e un soggetto (infelice) a carico dello stato in più.
La seconda è quella che quel ragazzo vada a chiedere i soldi a qualcuno che li ha e che per darglieli non ha bisogno di tante formalità. Poi non lamentiamoci se sul giornale scopriamo che i Casalesi, o chi per loro, si riescono ad accaparrare pezzi della nostra economia.