Il blu e il verde
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22 Agosto 2016“La maledizione di vivere tempi interessanti‘ (46)
di Michele Nardelli
(10 giugno 2016) Da quando ha preso il via, nell’estate del 2006, ho sempre seguito e commentato il Festival dell’economia di Trento. Valorizzandone l’importanza come occasione di confronto pubblico con personaggi più o meno noti del mondo economico, del pensiero, della politica… attorno alle grandi questioni del nostro tempo, come testimonianza di una comunità che si apre e connette con il mondo, come modalità di promozione del nostro territorio e delle sue unicità a testimonianza di come la cultura e la conoscenza rappresentino anche su questo piano una grande opportunità di investimento.
Non ho nemmeno nascosto gli aspetti critici che si andavano evidenziando, nell’identificazione dei temi che di volta in volta hanno tratteggiato la riflessione come ad assecondare il presente piuttosto che cercare di interpretare i segni del tempo, nella scelta dei relatori che ha teso a privilegiare nomi di grido piuttosto che visioni che proponevano sguardi originali, nel ridurre la domanda di conoscenza ad un insieme di eventi piuttosto che nel far crescere sul territorio una continuità di offerta culturale.
Così il Festival dell’economia è diventata una kermesse del “già detto“ piuttosto che un laboratorio permanente. Una china di cui si potrebbero ricordare esempi clamorosi, per dire che non è affatto scontato “essere presenti al proprio tempo“.
Quest’anno per la prima volta ho deciso di disertare il nostro “festival“, andandomene altrove. Lo dico con il rammarico di non aver potuto assistere alle code per partecipare agli incontri, che tanto in passato mi avevano inorgoglito, di non incontrarmi con amici e persone care per scambiare qualche impressione su questo o quel relatore, insomma di non potermi sentire parte di una comunità che cerca un modo intelligente di comprendere piuttosto che di rincorrere gli avvenimenti.
E però, di fronte alla scelta di un tema che rappresenta in sé un approccio vecchio e poco responsabile verso questo nostro tempo (“I luoghi della crescita“) ho dapprima sbattuto gli occhi quasi a sincerarmi del vero e poi mi sono davvero cadute le braccia.
Come si fa di fronte all’insostenibilità di un modello di sviluppo che ha fatto della crescita il suo comandamento riproporre questo mantra come se fosse la soluzione e non invece parte rilevante del problema? Come non vedere che nel 2015 questo pianeta già a metà di agosto aveva consumato quanto gli ecosistemi erano in grado di produrre a livello globale nell’arco di un anno? Come non comprendere che il carattere limitato delle risorse (e la risposta che viene dall’asserita non negoziabilità dei propri stili di vita) è all’origine di quella terza guerra mondiale che si combatte fra inclusione ed esclusione e che invano Papa Francesco denuncia dall’inizio del suo apostolato?
Tutto questo ci parla del fatto che la crisi che stiamo attraversando è l’esito complesso di molti fattori che s’intrecciano fra loro, non ultimo quello di un pensiero che ancora non ha saputo fare i conti con quel mix di “promessa“ e “demenza“ che la cieca fede nel progresso ci ha consegnato nel corso del Novecento e che anche per questo si attarda su categorie obsolete ormai inservibili.
Può essere che i numeri del Festival dell’economia continuino a risultare significativi e questo non può che far piacere. Ma, leggendo a distanza le cronache del festival, non mi pare che questa edizione sarà ricordata per un particolare guizzo di analisi o di progettualità. Il problema è che rischia di lasciare ben poco anche nel grado di consapevolezza della nostra comunità, a cominciare dalla sua sempre più “povera“ classe dirigente.
Continuo a pensare che il futuro del Festival dipenderà essenzialmente dalla capacità di dare risposte ai grandi quesiti che oggi s’aggirano come moderni spettri su un presente che appare sempre più inquietante. E di questo ci si dovrebbe interrogare.