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La nuova ossessione si chiama sicurezza

Con un esergo affidato alla Ginestra di Leopardi, sulle “magnifiche sorti e progressive” che non arrivano mai mentre si resta invischiati nel “secol superbo e sciocco”, Cereghini e Nardelli citano l’enciclica “Laudato si’” di papa Francesco e la sua bella immagine della “terza guerra mondiale a pezzetti”, citano Bauman (la “paura liquida”) e Hillman, Balducci e Morin.

Contestano lo sfondo falso dello “scontro di civiltà”, e ritornano al Novecento, secolo breve sì, secolo dei diritti e del progresso certamente, ma anche secolo degli assassini e della violenza organizzata, che culmina nei lager come picco tragico e finisce nel 2001 con l’attacco alle Torri Gemelle, simbolo dell’insicurezza globalizzata.

Con un bel verso di un gran poeta friulano da poco scomparso, Pierluigi Cappello, Cereghini e Nardelli traghettano il loro discorso dagli Stati alle città: “Già s’insinua fra le case,/ trova l’estuario nelle vie sfollate,/ con lento incedere di lava, il buio”. La città che è bazar ma pure giungla. Quartieri, incroci, palazzi videosorvegliati, zone blindate e “sicure” che si contrappongono a banlieue e favelas abbandonate a se stesse, celebrazione di una miseria insormontabile e di un’ingiustizia insopportabile.

Davvero, il buio avanza e le inferriate non lo tengono fuori, perché i diversi sono fra noi e mettono in crisi le tranquillità identitarie consolidate. Rancore sotto la cenere, paura come vuoto di pensiero: l’insicurezza internazionale si trasferisce sotto pelle, a livello personale.

E gli autori non possono che ribadire: “Apertura, incontro e conoscenza reciproca sono l’antidoto alla paura. Entrare nella storia, nelle culture, negli usi, negli idiomi degli altri è la condizione per riconoscerli e sapervi interloquire”. Parole che oggi la vulgata dominante bollerà come “buonismo” da snob che non interpretano gli umori del popolo.

Il quarto e ultimo capitolo, allora, propone il “prendersi cura” come risposta alla domanda di protezione: che non è solo difesa dalla microcriminalità, che non va sottovalutata, ma esigenza di servizi, di tutela delle famiglie, di decoro urbano e di dignità sociale.

Bella l’idea finale, della sicurezza come “con-fusione”. Non nel senso di caos, naturalmente, ma nel significato di intreccio, compenetrazione, inclusione, accoglienza reciproca: io riconosco te, noi incontriamo voi e insieme abitiamo una casa comune, una città condivisa, dove le differenze non sono divaricazioni insanabili ma possibilità di conoscenza.

Nardelli e Cereghini – dopo tante parole di sociologi, politologi e filosofi – finiscono il loro breve viaggio nella “Sicurezza” approdando alla “Prospettiva Nevskij” di Battiato: “il mio maestro mi insegnò com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire”. Ecco, spingere la notte più in là, intravvedere in anticipo i segni dell’aurora. E scegliersi, anziché cattivi agitatori di paura, buoni maestri, che ci insegnino a distinguere, a decifrare, a non maledire i tempi bui.

* Giornalista e scrittore, ha pubblicato questa recensione nella rubrica “L’isola del Giovedì” sul quotidiano L’Adige

 

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