Sicurezza, solidarietà e fiducia nel futuro
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Hannah Arendt con La banalità del male ci ha posti di fronte ad una diversa indagine sull’uomo. Irrisolta nell’interrogarsi sulla possibilità di rinnovare sin dall’origine la natura degli uomini, ma indicando uno spazio di riflessione che pone il tema del bene e del male come parte archetipica dell’uomo. Marte e Venere, Ares e Afrodite, la guerra e la bellezza: ma «che cosa ci trova Amore nella Guerra?» si chiede James Hillman nel suo Un terribile amore per la guerra. E risponde così: «I personaggi dei miti ritraggono le caratteristiche della natura umana, e la psicologia è mitologia in abiti contemporanei».
Ma se tutto questo è nella natura umana, come venirne a capo? Abita qui, io credo, la questione cruciale dell’elaborazione del conflitto, in primis per impedirne la sua degenerazione violenta; in secondo luogo per evitare che – a fronte di narrazioni non condivise – le guerre non finiscano mai; e infine per disinnescare la felicità della guerra, quello spazio di libertà assoluta dove l’uomo, liberandosi dalla propria solitudine, ha potere di vita e di morte sul prossimo.
Costruire non la pace, che sorge nel territorio della guerra, bensì la cultura della pace. Nelle pratiche collettive, quell’«instancabile autoesame» di cui parlava Karl Jaspers, come sul piano individuale nel tenere a bada il criminale che alberga in ciascuno di noi.
No, non ci sono da una parte gli uomini e dell’altra no. Ci siamo noi, fatti di male e bene. «Possiamo aprire gli occhi su questa terribile verità e, prendendone coscienza, dedicare tutta la nostra appassionata intensità a minare la messa in atto della guerra, forti del coraggio che la cultura possiede, anche nei secoli bui…»1. (m.n.)
1James Hillman, Un terribile amore per la guerra. Adelphi, 2005