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Tre scuole, altrettanti spaccati di questo nostro Trentino. Lezioni di geografia.

“La maledizione di vivere tempi interessanti‘ (40)

di Michele Nardelli

(7 marzo 2016) Devo ringraziare l’associazione “Il Gioco degli Specchi“ per avermi coinvolto nell’attività di formazione rivolta ad insegnanti e studenti nell’ambito del progetto “La cassetta degli attrezzi“. Perché entrare in contatto con i ragazzi delle scuole medie superiori di Trento (Istituto professionale Pertini e Liceo Da Vinci) e di Rovereto (Istituto d’arte Depero) è sempre un’esperienza che ti permette di avere uno spaccato sociale tutt’altro che scontato e perché non è affatto vero che i giovani sono refrattari al sapere, ovviamente purché si abbia qualcosa da raccontare loro.

Quando mi è stato chiesto di portare il mio contributo ad una proposta formativa sulle “nuove geografie“ ho insistito sulla necessità di coinvolgere in primo luogo gli insegnanti, affinché questo percorso non diventasse un episodio estraneo alla normale attività didattica, bensì parte integrante dell’itinerario di studio delle classi coinvolte.

Così prima ancora di entrare nel merito delle aree oggetto di indagine con gli studenti – Nicaragua, Afghanistan e Siria – ho parlato agli insegnanti della necessità di uno sguardo “presente al proprio tempo“, capace cioè di cogliere i segni di un passaggio di tempo difficile da interpretare attraverso categorie analitiche che oggi appaiono inadeguate a comprendere il nuovo contesto che si è aperto con la fine di una storia, quella del Novecento che ancora fatichiamo ad elaborare.

Agli insegnanti si chiede oggi il compito per nulla banale di introdurre i ragazzi in un contesto carico di incognite, segnato dall’inedito intrecciarsi di crisi (ecologica, economico-finanziaria, demografica, politica…), che investono il nostro pianeta tanto da metterne in discussione i precedenti equilibri. Tutto questo richiederebbe un lavoro di formazione permanente ben oltre il normale aggiornamento professionale, che semplicemente non c’è. L’autonomia scolastica avrebbe dovuto servire anche a questo, ma la riforma provinciale del 2006 è stata avversata tanto da svuotarla progressivamente.

Gli incontri con gli studenti sono stati davvero molto interessanti. Se il concetto di frontiera assume un significato sociale, allora l’istituto professionale Pertini di Trento rappresenta davvero una scuola di frontiera.

L’impatto con questi ragazzi testimonia di un’umanità variopinta che vive sulla propria pelle la fatica del vivere, le contraddizioni sociali, le vicissitudini famigliari, l’esclusione e la violenza che questa porta con sé. Parlare in questo caso del Nicaragua con la testimonianza di Elia, una giovane donna originaria di quel paese, sembra una scusa per parlare di diversità e migrazioni, di paesi ricchi resi impoveriti, di saperi e culture che s’intrecciano lungo il corso della storia e che si scontrano con i processi di omologazione. Temi che forse la precocità delle esperienze di vita di molti di loro tendenzialmente distolgono dal desiderio di approfondire, fin quasi a sfidarti sul valore da assegnare alle parole.

Eppure, dai volti di questi ragazzi dal futuro più incerto di quello dei loro coetanei liceali potresti ricostruire una geografia parallela della nostra stessa comunità. Qui si dovrebbe investire di più.

Al liceo artistico Depero di Rovereto la frontiera si avverte un po’ meno. Il numero dei ragazzi coinvolti è maggiore (quattro classi) e l’impressione è che il percorso formativo pecchi di estemporaneità.

Sono qui con gli amici Razi e Soheila a parlare del loro paese, l’Afghanistan. Meno esotico del Nicaragua, più intrecciato con le vicende di guerra che hanno coinvolto anche il nostro paese, più esposto allo stereotipo e alla riduzione dell’altro a nemico. Stereotipi che cerchiamo di far emergere dall’immaginario dei ragazzi: guerra, terrorismo, talebani, oppio, deserto…

Con Razi e Soheila abbiamo fatto un percorso durato anni e che ancora prosegue per cercare di superare questa riduzione e associare questo paese ad immagini diverse da quelle proposte da un mondo occidentale che, peraltro, ha contribuito non poco affinché si misurassero qui la forza muscolare delle superpotenze, lo scontro (presunto) di civiltà, gli interessi geopolitici e quelli più prosaici.

Molti di loro studiano fra l’altro tecniche di comunicazione: l’idea di associare la condizione di rifugiato a quella di regista (la professione di Razi e Soehila) non è affatto scontata e anche solo questo aspetto dà al confronto un certo significato, come a pensare diversamente il loro stesso agire professionale in questo campo. Uscire dallo stereotipo, appunto. E cercare un approccio critico verso la realtà che ci viene presentata dai media.

Il terzo incontro formativo si è svolto sabato scorso al liceo Da Vinci di Trento. L’area oggetto di studio e di riflessione è stata la Siria, paese che questi ragazzi hanno iniziato a conoscere attraverso le drammatiche immagini televisive degli ultimi mesi. Tutti o quasi con il loro quaderno di appunti, a prendere nota diligentemente del racconto proposto da Nibras e delle immagini proposte da chi scrive.

Oggi se ne parla molto in Italia per effetto dei flussi migratori e del sangue che scorre. Ben poco di ciò che questo paese rappresenta nella storia dell’umanità, di città come Damasco e Aleppo che sono considerate gli aggregati urbani più antichi del mondo, dell’età dell’oro del mondo arabo che prese il via proprio a Damasco con il “movimento di traduzione“ a partire dal VII secolo, estendendosi poi a Baghdad e in Andalusia. Così come ben poco si parla, per quanto riguarda la storia meno lontana, della Nahda (la rinascita del XIX secolo) e dell’ancora più recente “non allineamento“ seguito alla dominazione coloniale, oppure della stessa primavera araba del 2011, quando le vie di Damasco vennero percorse da un grande movimento di protesta proseguito in forma nonviolenta per quasi due anni (nonostante le persecuzioni e gli arresti) senza che nessuno (tranne qualche piccola eccezione) in Occidente si degnasse di sostenerne le sorti.

Sono così stanco di correre appresso alle emergenze… Come a dover seguire l’effetto condizionato dei sensi di colpa. Ma quando c’era bisogno di sostenere politicamente (e sul piano formativo) le primavere arabe, nel creare quel tessuto di conoscenza e di relazioni che avrebbero potuto impedire la degenerazione violenta del conflitto, dov’erano i media? Dov’erano la politica e le istituzioni (comprese quelle religiose)?

L’insegnante che ha promosso l’incontro mi chiede quel che oggi si può fare. Rispondo che la cosa più importante sta proprio nel favorire la conoscenza e nella costruzione di relazioni che poi sono alla base di una buona cooperazione. Ciò che in realtà avremmo dovuto fare prima che parlassero le armi, quelle che abbiamo venduto e quelle che siamo tentati di usare quando pensiamo che la soluzione per sconfiggere il terrorismo sia la guerra, senza capire che quello è il loro terreno preferito. E che è necessario fare anche ora, oltre all’accoglienza, per guardare al futuro nel creare le condizioni affinché il ritorno di queste persone non avvenga all’insegna di un contesto dominato dai “signori della guerra“. L’attenzione è molto forte, si potrebbe proseguire con le molte domande rimaste nei quaderni degli appunti. Spero che questo lavoro prosegua, dunque.

Negli stessi contesti cittadini, nella stessa fascia d’età, nello stesso passaggio di tempo… registro in queste tre occasioni d’incontro nelle scuole trentine modi d’essere, approcci e sensibilità fra loro molto diverse. Rispecchiano condizioni sociali e stimoli culturali che pure ci raccontano molto di questa nostra terra. In realtà tutti a loro modo (e a saperli prendere) attenti ed incuriositi, a testimonianza di quanto ci sia da investire nella conoscenza e nel senso critico di queste giovani persone.

Una lezione di geografia, anche per me.

1 Comment

  1. Emanuela ha detto:

    Che bel racconto ci regali Michele in questo scritto e condivido il tuo stupirti di fronte alla ricchezza della relazione educativa con i ragazzi….