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Transizioni giuste

Avanziamo nell’incertezza, quando addirittura non sbagliamo proprio strada.

Un caso particolarissimo ed esemplare è quello che ci arriva dall’Islanda. Il 23 ottobre scorso infatti si è tenuto – nel paese che secondo il World Economic Forum più si avvicina a una reale parità di genere – uno sciopero generale femminile, tanto per il lavoro salariato che per il lavoro di cura, sottolineando come «la violenza contro le donne e il lavoro sottopagato sono due facce della stessa medaglia e hanno effetto l’una sull’altra». Anche in questo caso i paradigmi nuovi cui tendere esitano nel prendere il sopravvento rispetto a quelli che dobbiamo al più presto abbandonare.

Troppo poco, troppo tardi.

Nei giorni scorsi mi è capitato di partecipare – rispondendo con curiosità all’appello lanciato dal Comune di Bologna ad amministratori locali, enti del terzo settore, attivisti/e – al primo incontro dell’Alleanza per le transizioni giuste. Dentro le tre parole che compongono il titolo di questo nascente soggetto collettivo mi sembra si possano individuare gli elementi utili per dar forma all’orizzonte che Edgar Morin ipotizza quando – criticando l’apologia del pensiero progressista – ci dice che “rinunciare al migliore dei mondi non significa rinunciare a un mondo migliore”.

Per costruirlo quel mondo migliore servono però alleanze larghe, capaci di andare oltre i confini delle identità e di coalizzare i diversi dentro sfide che – come ci ha ricordato Charles Sabel, ospite recentemente del Forum Disuguaglianze e Diversità – siano sufficientemente maneggevoli e concrete (gli accordi internazionali, in vista della Cop28 di Dubai, non lo sono affatto…) da coinvolgere tante e tanti, partendo magari da contesti locali – un Comune di medie dimensioni? una Provincia autonoma? – come piattaforma su cui mettersi alla prova.

Intendiamoci. Parlare di larghezza del campo delle alleanze non significa accontentarsi di un dato quantitativo, di una somma costruita su basi fragili o su obiettivi generali. Si tratta, piuttosto, di riconoscere e riconoscerci in alcune coordinate condivise che è bene ricordare. Il riconoscimento e la presa di responsabilità rispetto ai privilegi di cui siamo portatori, pur non tutti alla stessa maniera. Il bisogno di agire la cura nel quotidiano, per e con le persone, senza eroismi e “da vicino”, nella prossimità. L’urgenza di essere complici nella ricerca di strumenti adatti a non disperdere le poche energie a disposizione e a costruire politiche, buone per vivere il presente e pronte ad anticipare il futuro, dove il contributo di ciascuno concorre a trovare soluzioni capaci di renderci felici e di farci stare bene.

E’ infatti al punto di contatto tra prospettiva (la visione, un’idea di Mondo) e concretezza (l’interesse materiale che si verifichi un miglioramento, i progetti per realizzarlo) che le transizionidi cui spesso parliamo possono trovare il loro pieno dispiegamento. E’ solo avendo piena consapevolezza dei limiti e delle fragilità dello stato delle cose – vale per il clima fuori dai gangheri, per le povertà crescenti, per il lavoro precario, per la natalità raggelata, per la sanità infragilita, per la pianificazione urbana spesso confusa, per il diritto all’abitare e alla cittadinanza negati – che si può con convinzione contribuire a dar ritmo e direzione ai movimenti di trasformazione che in molti e molte auspichiamo, dentro e fuori le istituzioni.

E la direzione – per il chiudere il cerchio di questo breve ragionamento – non può che essere rappresentata dall’aggettivo giuste. Non esistono, è necessario dircelo, transizioni neutre e dobbiamo avere massima attenzione per gli effetti che esse producono nel loro evolvere. Ci saranno da mettere in discussione abitudini e modelli che a torto e troppo a lungo si sono ritenuti non negoziabili, rendite di posizioni oggi non più giustificabili (un recente rapporto di Oxfam certifica che l’1% più ricco della popolazione terrestre produce emissioni clima-alteranti pari a quelle del 65% più povero), modelli di produzione e consumo radicati nelle società e in ognuno di noi. Serve impegnarsi quindi per transizioni che diano come esito tessuti sociali più coesi e democratici, territori e comunità dall’impronta ecologica in equilibrio con l’intero ecosistema, condizioni di vita più dignitose e sicure, economie più mutualistiche e redistributive.

Sarà a questo livello di complessità che si dovrà posizionare la Politica che alle facili promesse (di tempi d’oro che ritorneranno, di conservazione di una ”normalità”rivelatasi il vero problema) deciderà di contrapporre altre premesse, fondamenta su cui costruire un avvenire desiderabile e accogliente, per tutte e tutti.

Nessun escluso.

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