Un destino comune dentro la fragilità
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6 Aprile 2020È vero che molte delle pandemie del passato sono nate in Oriente ed è da lì che si sono diffuse arrivando, con anni di ritardo vista la lentezza del contagio dovuta alle comunicazioni di allora, in Europa, anche se spesso grazie soprattutto a mercanti genovesi e veneziani che con l’Oriente trafficavano più frequentemente e con maggiore successo di altri. Non ho notato, però, nel confronto e nell’analogia storica del nostro Coronavirus con le pandemie del passato, alcun riferimento alle grandi epidemie di cui l’Occidente e l’Europa non furono vittime ma, invece, responsabili, anche se involontariamente. John Henry Coatsworth, uno storico della prima «globalizzazione», quella che ha inizio nel XVI secolo a ridosso dell’arrivo di Colombo nelle Americhe, ha scritto che essa ha ucciso oltre il 90% degli abitanti delle Americhe. In effetti, se si tiene conto che la popolazione dei territori americani conquistati da spagnoli e portoghesi assommava a circa 50 milioni di persone e che a metà del Seicento essi erano ridotti a 5 milioni, il conto torna.
A uccidere gli indigeni non furono solo i soldati che Cortés o Pizzarro condussero con sé ma, soprattutto, i microbi capaci di infettare una popolazione del tutto priva di qualsiasi immunizzazione nei confronti del vaiolo, del morbillo e delle altre malattie infettive con cui l’Europa conviveva da secoli. Nel 1518 ci fu a Hispaniola (l’odierna Haiti, dove Colombo sbarcò nel suo secondo viaggio) un’epidemia di vaiolo che uccise un terzo degli abitanti, ridotti nel 1530 a sole 20.000 persone da mezzo milione che erano. Lo scambio biologico che accompagna la «scoperta» delle Americhe ha come effetto la distruzione fisica delle popolazioni indigene, proseguimento e compimento della loro sconfitta militare, soggiogazione politica e schiavizzazione che spagnoli e portoghesi avevano condotto con la superiorità delle loro armi da fuoco.
La mortalità per queste malattie era, in realtà, particolarmente elevata anche in Europa, dove circa il 10% dei bambini moriva di vaiolo in alcune zone, ma gli effetti della loro diffusione in un territorio vergine fu devastante. Tenochtitlan, la capitale dell’impero azteco che all’arrivo dei soldati di Cortés, nel novembre 1519, era popolosa circa come Parigi, prima che la città venisse distrutta dagli spagnoli e dai loro alleati locali nell’agosto del 1521 aveva perduto metà della popolazione, e cioè circa 150.000 persone, per un’epidemia di vaiolo. Cinquant’anni dopo, in tutta la Mesoamerica vi furono due milioni di morti a causa di un’epidemia di tifo. Il vasto e prolungato contagio, nei decenni successivi, si estese per tutto il continente e contribuì a una riduzione della popolazione che non si era mai vista nella storia come effetto di guerre e conquiste.
Un’altra memoria del passato che sembra sfuggita alle analogie e ai richiami storici che si sono fatti in questi giorni riguarda le epidemie – circoscritte come numero ma terribili e letali come tasso di mortalità complessivo – che accompagnarono i colonizzatori inglesi e francesi, belgi e olandesi, portoghesi e tedeschi, nella loro conquista e sottomissione dell’Africa. In questo caso vittime dell’epidemia erano i soldati europei, incapaci per molto tempo di resistere alla malaria o alla febbre gialla, con cui invece le popolazioni locali convivevano da sempre, e che furono così ostacolati a lungo nel riuscire a conquistare perennemente soprattutto le zone interne del continente. Cosa che fu resa possibile soltanto con la scoperta del chinino, che rese non più letale come prima il contagio della malaria, la cui diffusione, comunque, aveva caratteristiche ben diverse da quelle delle epidemie e pandemie di cui stiamo parlando.
Ciò che salta agli occhi, in ogni modo, è la difficoltà a liberarsi – soprattutto quando il richiamo al passato non è filtrato dal politically correct ormai presente da anni in gran parte dei manuali di storia – del nostro atavico etnocentrismo, incapaci, proprio nel mezzo di una pandemia globale che si è diffusa con estrema rapidità per il livello raggiunto dalla globalizzazione, di uscire da un’ottica eurocentrica in cui gli altri popoli e gli altri continenti sono solo comprimari della «nostra» storia.
* da www.rivistailmulino.it