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31 Maggio 2013Sovranità in conflitto
Ha preso il via a Trento l’ottava edizione del Festival dell’Economia. Un titolo suggestivo: “Sovranità in conflitto”.
di Tito Boeri *
Quando mio figlio ha cominciato a guardarmi dall’alto in basso, ho avuto la netta sensazione di avere perso sovranità. Ho capito che, da quel momento in poi, avrei potuto appellarmi solo alla mia statura morale per convincerlo a scendere a comprare il giornale all’edicola. Oppure avrei dovuto sottostare al ricatto di comprare anche un giornale di suo gradimento assieme a quelli da me prescelti. Ma ben presto mio figlio ha cominciato a commentare le notizie del giorno. E non solo quelle di sport. Avevo così il giornale a domicilio, un’eccellente rassegna stampa e un quotidiano sportivo da sfogliare. Tutto in un colpo. Ci possono anche essere vantaggi nel perdere sovranità. Dipende da come e verso chi la si perde.
La crisi ha fatto rimpicciolire molte sovranità nazionali. Molti re si sono scoperti terribilmente piccoli ancora prima che nudi. Governi nazionali sono dovuti intervenire per salvare istituzioni finanziarie che erano fino a 10 volte più grandi di loro. Hanno scoperto, loro malgrado, che l’unico modo per affrontare il problema era quello di gestire la crisi (e gli aiuti) assieme ad altri paesi, rinunciando a un pezzo della loro sovranità per magari non perderla del tutto, travolti dal fallimento di istituzioni molto più grandi di loro e che non potevano lasciar fallire senza fallire essi stessi.
I cittadini dei paesi della crisi del debito nella zona euro si sono sentiti privati di sovranità di fronte alla dittatura dello spread. Ma come, si sono detti, perché ci facciamo imporre tasse più alte e tagli alla spesa pubblica da persone e istituzioni che magari non sono mai venute in Italia, che non hanno mai pagato i tributi? Il sostegno di Angela Merkel non ha certo giovato a Nicolas Sarkozy in occasione delle elezioni presidenziali francesi. L’endorsement dei leader europei non è stato di alcun aiuto, per usare un eufemismo, a Mario Monti, in una campagna elettorale in cui è stato spesso agitato lo spauracchio da lui stesso evocato due anni fa, quello di un podestà straniero, di una nostra perdita di sovranità.
A Cipro, in Grecia, Spagna e Italia sono molto popolari politici che si battono per l’uscita dei loro paesi dall’euro. Sostengono che così finiremmo di essere schiavi dello spread e potremmo finalmente svalutare per diventare più competitivi e per tornare a crescere. Non dicono che così lo spread tenderebbe all’infinito perché il ripudio del debito inevitabilmente associato all’uscita dall’euro e alla svalutazione porterebbe alla fuga di capitali e non avremmo più nessuno al di fuori del nostro paese disposto a comprare i nostri titoli di stato.
L’unione monetaria è nata come scelta volontaria e cosciente di governi sovrani, di privarsi di autorità nella conduzione della politica monetaria. Come Ulisse si era fatto legare le mani all’albero maestro per resistere al richiamo delle sirene, così i governi hanno voluto privarsi della possibilità di decidere in proprio, meglio a lasciar decidere a una banca centrale nazionale, quanta inflazione tollerare, se lasciare svalutare la propria moneta, a che tasso dare prestiti alle banche. Lo hanno fatto perché pensavano di poterci guadagnare, riuscendo a resistere meglio alle pressioni delle lobby dei debitori che premevano per un più alto tasso di inflazione e a ridurre gli oneri di servizio del debito pubblico.
Una delle lezioni della crisi è che non basta una politica monetaria comune, anche quando questa si spinge molto al di là del seminato, nell’ambito di una unione monetaria. Ci vuole anche maggiore coordinamento nella politica fiscale e nella supervisione delle banche a livello sovranazionale. Potremo, come nel caso della BCE, affidarci anche per queste funzioni a una tecnocrazia? Oppure dobbiamo progettare organismi sovranazionali che abbiano una qualche investitura democratica? I tecnici dovrebbero forse limitarsi a gestire le autorità di controllo, a partire dal Fiscal Council che vigilerà sul rispetto delle regole fiscali comuni (il Fiscal Compact), ma è sbagliato pensare che un esecutivo comunitario che gestisce un bilancio comune non sia eminentemente un organismo di tipo politico. Il problema è la scala, nazionale o sovranazionale, sulla quale l’operato di questi politici verrà valutato.
Al di là del caso delle unioni monetarie ci sono molti altri contesti in cui decisioni fondamentali nel determinare il grado di benessere dei cittadini possono essere prese solo se i diversi soggetti coinvolti rinunciano ciascuno a un po’ di sovranità. Viene da chiedersi se sono poi vere rinunce di sovranità quelle imposte dal governo multilaterale di fenomeni, come l’inquinamento atmosferico, che influenzano diverse giurisdizioni, travalicando gli stessi confini nazionali. O si tratta invece dell’unica sovranità possibile? E come si può ridurre il rischio che nella gestione di risorse comuni ci siano comportamenti opportunistici da parte di singoli Stati?
Esiste molta letteratura economica che si occupa di questi temi. La crisi dell’eurozona ha reso questa letteratura di grande attualità e ha avviato molti nuovi lavori a cavallo tra la finanza e la macroeconomia. Cominciano anche a esserci studi, ai confini fra economia, sociologia e scienze politiche, sulla formazione di una élite e classe dirigente in grado di governare processi globali. L’emergere di questa classe dirigente è fondamentale per evitare che le tensioni sulla sovranità degenerino in conflitto. La storia ci insegna quanto il rischio che si passi dalla cooperazione al conflitto sia tutt’altro che remoto, soprattutto dopo lunghe crisi economiche come quella che stiamo attraversando. Il contributo degli storici economici sarà molto importante anche in questo festival, nel ripercorrere la formazione di federazioni a partire da Stati-nazione, dall’esempio di Hamilton alla genesi della federazione australiana.
* Tito Boeri è responsabile scientifico del Festival dell’Economia
1 Comment
spesso mi sono trovato in disaccordo con Boeri, ma queste sono riflessioni molto belle.
Una sola cosa: non ho ancora capito perché nessuno parla mai della Svizzera.
A che serve tirar fuori Tasmania, Hamilton, Hong Kong, Catalogna e che so io quando confiniamo con un esemplare modello di integrazione repubblicana e federale di gruppi etnici differenti con un alto tasso di democrazia partecipata/diretta, per di più in un’area alpina?
E’ servita una dittatura per far stare assieme popoli diversi? Assolutamente no, anzi il contrario. E allora?