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Sarajevo 1984, i Giochi Olimpici della Jugoslavia

Poteva succedere che, in primavera, uno se ne andasse tutto tranquillo per i boschi sul monte Bjelašnica, a sud-ovest di Sarajevo, in un clima normale, e che dopo dieci minuti si trovasse nel mezzo di una tormenta di neve. Anche quelli che conoscevano la montagna, talvolta rischiavano di perdersi o rimanere sotto la neve, come ad esempio era successo a undici giovani bravi sciatori che, negli anni Sessanta, persero la vita durante una tempesta imprevedibile sul monte Bjelašnica.

Nevica?

La neve da noi, insomma, non è mai stata un problema. Ne avevamo sempre in abbondanza. Ma all’inizio del febbraio 1984 la sua inspiegabile assenza ci tormentava. Circa quattro milioni di bosniaci ed erzegovesi scrutavano il cielo aspettando la neve, ci svegliavamo di notte per controllare se avesse cominciato, la prima domanda di mattina al risveglio era: “Nevica?” Accusavamo i meteorologi di aver sbagliato i calcoli e chi era religioso pregava affinché nevicasse. Invano. Per ogni eventualità erano pronti anche i cannoni per fare la neve artificiale, ma la precauzione ci pareva esagerata. Nei cento anni precedenti ai XIV Giochi Olimpici, a Sarajevo e dintorni era sempre caduta la neve.

Il giorno prima dell’inizio dei Giochi a Sarajevo, il 7 febbraio 1984, il tempo era primaverile. Non si vedeva neanche un fiocco di neve. Mi veniva da piangere, mi sembrava una vera e propria ingiustizia. Molti altri si sentivano come me.

Tutto era già pronto un anno prima che cominciassero i Giochi: era stato costruito il nuovo villaggio olimpico, nuovi alberghi erano stati aperti ed erano stati ristrutturati i vecchi, era stata recuperata e sistemata la parte antica ottomana della città, la Baš&#269

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