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Quella comunità che si mise in gioco…

Insieme, cercammo di abitarla. Come si poteva in quei primi anni ’90 con le colonne di profughi che spingevano alle frontiere. Avviammo così una delle prime e forse più diffuse azioni di adozione a distanza che questa terra abbia mai conosciuto. A Fiume ben seicento famiglie (o quel che ne rimaneva) erano in affido con altrettante famiglie trentine e tu Sandro eri l’animatore di questa relazione, da una parte all’altra del mare. Proseguì per quindici anni, anche dopo che l’esperienza della Casa per la Pace ebbe fine.

Insieme ci inventammo un modo diverso di interpretare l’impegno per la pace e la solidarietà internazionale. A dispetto delle forzature che di tanto in tanto buttavo lì, tu eri prudente. Intuivi che stavamo aprendo strade inesplorate. Ti interrogavi su come avremmo potuto essere all’altezza delle nuove sfide. Tu che all’altezza dicevi di non sentirti mai… eri per noi tutti un punto di riferimento.

Ricordo come mi guardavi con l’aria preoccupata, ma insieme indulgente e paterna. Al tempo stesso eri curioso e, anche se non lo davi a vedere, attratto da quel che ci stavamo inventando, dall’impossibile che diventava realtà e dalle relazioni che ne nascevano. Tanto che te ne andavi spesso anche da solo, con la tua auto, a raggiungere Rijeka, per portare il denaro degli affidi e di altri progetti.

Non si trattava solo di sperimentare quella che poi chiamammo "cooperazione di comunità", o di prenderci le nostre responsabilità o, ancora, di essere solidali con il prossimo… Quell’esperienza rappresentava una piccola comunità che riempiva le nostre vite, ci prendeva le sere con lunghe e vivaci discussioni, prendevano corpo amicizie e un comune sentire.

Poi, come accade anche per le cose più belle, c’è una conclusione. Le nostre esistenze prendono strade diverse, spesso legate alle stagioni della vita… Rimangono le relazioni profonde… la stima.

Così, ci vedevamo di tanto in tanto, un incontrarci magari breve ma intenso, dove ci raccontavamo delle nostre vite, delle nostre speranze, delle fatiche, delle delusioni… dei nostri malanni.

Lo spazio di comunicazione più intensa erano le nostre letture, i libri che amavi e che ti circondavano. Non posso dimenticare l’emozione per la lettura di una ballata che l’estro narrativo di Paolo Rumiz aveva dedicato a Maša. Forse perché quella era una storia di amori irraggiungibili, attraverso il canto disperato di una sevdalinka (il canto d’amore che solo i luoghi di quella parte d’Europa sanno regalarci) che s’intitolava "Le gialle cotogne di Istanbul".

Con quell’emozione ti voglio salutare, caro Sandro. Grazie per quanto mi hai dato, grazie per tutto quello di cui ci hai fatto dono.

Michele

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