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Negli ultimi cinque giorni, qui, è morta più gente di quanta ne muoia in settimane. A Nembro (poco più di 11.000 abitanti) sono morte più di 90 persone in 20 giorni: la casa di riposo del paese si sta svuotando a ritmi impressionanti, ma anche molti over 65 in buone condizioni se ne sono già andati. In alcuni paesi della valle non suonano più le campane a morto, perché dovrebbero suonare ininterrottamente. Fanno una scampanata al giorno, forfettaria, per i morti del giorno prima. Molti muoiono senza avere mai contratto il virus, ma a causa del virus, perché i medici non sono più in grado di reggere tutte le emergenze. Se hai un infarto qui, oggi, resti in attesa, anche se di tempo non ne hai. Chi muore non ha cerimonia funebre.

Perché proprio qui? Le ragioni sono diverse. Forse, con approccio materialistico, qualcosa di provvisorio emerge. Bergamo è diventata “porta d’accesso” all’Italia, grazie a un aeroporto che, con i voli low cost, ci fornisce un’enorme quantità di turisti e una mobilità aeroportuale impensabile pochi anni fa. Produce milioni di indotto e anche milioni di contatti. Nel dopo crisi 2007/08 la città di Bergamo si è retta anche su questo boom aeroportuale e del turismo, come sa chi conosce la storia economica regionale recente. La media Valle Seriana, invece, oltre a essere molto popolosa, è una delle regioni più produttive d’Europa, tanto che nessuno ha pensato di chiuderla, temendo il disastro economico: secondo il sindaco Bertocchi, ancora il 4 marzo, una zona rossa avrebbe prodotto danni incalcolabili. E, in effetti, si tratta di una valle che conta centinaia di aziende, raggiunte da migliaia di lavoratori provenienti da tutta la provincia. Il trenino della Valle Seriana fa una decina di fermate tra Albino, Nembro, Alzano (un asse che costituisce il cuore del cuore del disastro), portando su e giù migliaia di studenti e lavoratori. Fino a non molti giorni fa, il trenino ha certo pesantemente contribuito alla diffusione del contagio. Si tratta anche di una “valle anziana”, come la provincia in genere, ma con un tasso di anziani in molti paesi superiore alla media nazionale, anche qui per ragioni legate alla struttura economica regionale. E molti di quegli over 65 non si rendono conto, mediamente, di essere anziani, e quindi fragili e a rischio; probabilmente perché fino a 20 giorni fa reggevano spesso non solo sé stessi, ma anche pezzi di famiglia. Molti di loro hanno la pensione, la casa di proprietà, hanno sempre tenuto i nipotini, hanno aiutato i figli in difficoltà, hanno fatto la spesa per i figli precari quando serviva, hanno comprato la casa ai figli con i risparmi di una vita. Sono in salute grazie al Ssn migliore del circondario e alle cure che li tengono in piedi. Sono “giovanilisti”: vanno in montagna, al mare, spadroneggiano spesso e volentieri. Adesso la realtà si è profilata davanti ai loro occhi nella forma di una malattia che, sopra i 65, spesso inchioda a letto con 39 di febbre per 8/10 giorni, se va meno bene richiede 8 giorni attaccato a una macchina, se va male manda al cimitero, in coda davanti al crematorio. Ma tantissimi di questi anziani non se ne fanno una ragione. In strada sono più dei giovani, ancora adesso che, comunque, sono pochi rispetto a tre giorni fa.

Sotto casa mia le ambulanze si sono intensificate fino a raggiungere, tra sabato 7 e domenica 8 marzo, quota una ogni sei/sette minuti: abito all’imbocco della Valle Seriana quindi, scendendo da là, mi passano tutte sotto la finestra. Ti toglie il sonno anche se, come me, sei di sana e robusta costituzione, fisica e mentale. Figuriamoci l’effetto che può fare una cosa del genere su soggetti vulnerabili. Da qualche giorno le ambulanze sono diminuite, perché non ha più senso andare a prendere pazienti che non si ha più modo di collocare. Più o meno tutti contiamo due o tre morti al giorno nelle cerchie di conoscenze amicali o familiari. L’effetto è psicologicamente devastante.

Medici e infermieri stanno rischiando per tutti, per noi. Domenica 15 marzo si è registrato il primo decesso tra gli operatori del 118. Il giorno dopo, un’ostetrica dell’ospedale Pesenti-Fenaroli di Alzano è morta a 58 anni, dopo avere assistito la madre, anch’essa uccisa dal Coronavirus. Ma non sono solo i sanitari a essere allo stremo delle forze, a iniziare a barcollare. Va persino peggio agli educatori e alle persone che lavorano nei servizi sociali a vari livelli, quasi tutti per quattro soldi. Rischiano molto quanti si occupano di anziani e persone con disabilità fisica e mentale (spesso persone adulte che vivono in comunità, con prassi igieniche fuori controllo e devastanti in un momento come questo), così come tutti i vulnerabili del nostro Paese. Sono risultati contagiati diversi sacerdoti del Patronato San Vincenzo, più attivi tra i senza tetto assistiti presso la stazione di Bergamo. Rischiano le donne e gli uomini delle pulizie, spesso stranieri, che sono in prima linea nelle cliniche, negli ospedali e nelle strutture di assistenza come dipendenti di cooperative. Questi ultimi, come gli educatori, rischiano per salari da fame la vita dei loro genitori e dei loro nonni, ma anche la loro stessa vita, se non sono giovanissimi o se hanno problemi di salute pregressi, come l’asma. C’è chi ha già perso i propri cari, magari sapendo di essere stato veicolo di contagio: nessuno restituirà a loro alcunché e vivranno sempre con il senso di colpa. Eppure, queste persone rimangono al lavoro, per dovere o per senso di responsabilità nei confronti delle persone che assistono, per senso di pubblico servizio.

Il padre di un amico bosniaco, settantenne, ha vissuto tutto l’assedio di Sarajevo. Faceva l’assistente di un imam e, durante l’assedio, lavava i morti prima di portarli a braccia, insieme ad altri, verso l’esterno della città, lungo quella che è ancora oggi la via d’accesso principale. Finito tutto, venne a vivere a Bergamo con la famiglia. Raccontava al figlio un paio di giorni fa che la cosa più vicina all’assedio di Sarajevo che abbia conosciuto nella sua vita è la Bergamo di oggi, con la sua gente bloccata a casa, le sue sirene continue, i medici che impazziscono, le infermiere e gli infermieri che piangono con crisi di nervi continue, i morti che si accumulano più velocemente di quanto li si possa smaltire. Mancano solo i bombardamenti: di questo ci rallegriamo. Forse il padre del mio amico bosniaco esagera. Ma se lo dice, qualche analogia tra i due contesti ci sarà.

 

* Paolo Barcella insegna Storia contemporanea e Storia dell’America del Nord al Dipartimento di Lingue, letterature e culture straniere dell’Università degli Studi di Bergamo. Si occupa di storia delle migrazioni, di storia sociale dell’Alta Lombardia, di movimenti e culture xenofobe in Europa

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