Se non lasciamo futuri saremo passati per niente
6 Agosto 2019Il povero Cristo
23 Agosto 2019C’è una differenza profonda tra l’originale e l’originario. “Dovremmo aver care le cose perché sono vere, non perché sono vecchie”, scrive Baruch Spinoza, nell’Etica. È l’originario che ci manca, ma non perché la realtà non ce lo fornisce, ma solo perché non lo sappiamo o non lo vogliamo vedere.
Originario è porre al centro della politica la vivibilità e, cioè l’aria che respiriamo, l’acqua che beviamo, gli alberi e la salubrità del cibo, il modello di uso delle risorse nel turismo, nell’agricoltura, nei trasporti, nell’energia e nella mobilità in generale, solo per fare degli esempi.
Originario è riformare profondamente l’educazione e l’istruzione, per creare una civiltà planetaria e basata sulla sostenibilità e l’intercultura, sul dialogo delle differenze e la cultura del limite.
Originario è formare bambini, adolescenti e adulti a vivere nella quarta rivoluzione industriale affrontando e cercando di superare l’analfabetismo di secondo livello che, a causa dell’incapacità di controllare l’attendibilità delle informazioni che ci pervadono, sta mettendo in gravissima crisi la democrazia.
Originario è affrontare davvero l’apertura al pluralismo di genere e dare spazio al codice materno e femminile nella nostra esperienza e nella nostra vita.
Originario sarebbe, allora, che una piccola città come Trento, anche per affrontare i rischi di ridimensionamento che città di questa misura corrono, per evitare la chiusura su se stessa, ponesse al centro alcune questioni originarie e ne facesse la base per una strategia per distinguersi, con un poco di coraggio che in altri tempi non è mancato e per evitare la barbarie che, per riempire il vuoto e affrontare la paura potremmo scegliere. Ne saremmo responsabili, in quanto impegnati a inseguire qualcosa di originale e tattico, ma rimanendo sempre nello stesso pantano.
Proprio perché la crisi si dispiega su più livelli (economico ed ecologico, locale e globale, comunitario e istituzionale) abbiamo bisogno di reagire a essa riconoscendone la portata e mettendo in campo linguaggi e strumenti dalle forme e contenuti inediti, capaci di rappresentare le fondamenta sia teoriche che pratiche di un futuro di cui tanti e diversi possano sentirsi protagonisti, coinvolti. Almeno non esclusi. Il nuovo patto sociale che dobbiamo definire, a livello di prossimità e via via fino ad arrivare al mondo intero, ha bisogno di una radicalità nuova che non abbia paura di proporre un approccio diverso rispetto alle grandi questioni che determinano – in un effetto domino che dal quadro generale entra fin dentro le vite di ognuno – la realtà di cui facciamo parte e che oggi non regge più non solo per i colpi inferti da quelli che chiamiamo populisti ma perché incardinato su condizioni di partenza sbagliate e non più difendibili. Serve un cambio di registro profondo.
Siamo di fronte a un epocale salto di fase, la cui rappresentazione più evidente e urgente sta negli effetti sul pianeta dell’Antropocene, era di sviluppo economico mai conosciuto prima con la non secondaria esternalità negativa della possibile estinzione di massa del genere umano. Siamo alla ricerca quindi di un’ipotesi originaria, da intendersi come capace di farci ri-nascere, lì dove la morte è data dalla condizione insostenibile del tempo che stiamo vivendo. Un’ipotesi che ha caratteristiche completamente diverse da ciò che abbiamo vissuto fino ad ora. Non sarà sufficiente l’originalità di uno slogan o di una trovata comunicativa, di una serie di misure tiepidamente riformiste, di un candidato che si possa ritenere nuovo. Non lo saranno se non disposte ad assumersi il compito di rompere con le magnifiche sorti e progressive che ci hanno condotto fin qui e che ancora sono – nonostante tutto – architrave dei programmi delle principali forze politiche.
Le parole, è bene ricordarlo, contano. Sono il supporto linguistico alle scelte che la Politica si assume. Sono utili per cercare di costruire intorno a se un senso comune oggi frantumato, per riconoscersi dentro schemi valoriali di affinità e prospettiva. Occorre impegnarsi – rendendo maggioritario un approccio che oggi non lo è – affinché il tema della crescita venga sostituito nel vocabolario dalla parola limite, affiancata dai verbi condividere e curare. E serve che la parola sicurezza riacquisti il significato di mutualismo, di inclusione sociale, di aiuto reciproco. O, ancora, il tema della partecipazione non sia più interpretato come appendice marginale, o peggio scocciatura, dei processi democratici ma diventi loro infrastruttura abilitante fondamentale, riconoscendo ad ogni cittadino e cittadina il diritto e il dovere di contribuire alla politica quotidiana della propria comunità e di conseguenza dell’intera società, sempre più interconnessa, oltre i confini, le identità, le geografie formali.
Le prossime elezioni comunali di Trento – da intendersi come simbolo e riferimento per il Trentino tutto e per nulla slegate o secondarie rispetto al contesto nazionale o europeo – non saranno “solo” una scadenza nella quale sperimentare una rinnovata geografia politica, magari rifacendosi a una generale e non meglio identificata centralità civica. Saranno campo nel quale mettere alla prova, testandone la sua effettiva esistenza e vitalità, una comunità ampia e diversificata capace di guardare e interpretare con gli occhi del futuro le sfide che le si parano davanti.
Una comunità, quella che ci auguriamo esista a Trento e nel Trentino, che utilizza gli strumenti del dialogo e della progettazione collettiva per mettere a valore le proprie sensibilità e competenze. Per dare consistenza politica a quella tendenza all’inedito che rappresenta l’unica strategia possibile per scartare a lato rispetto alla crisi in cui annaspiamo e che – faremmo bene a ricordarlo, come minima e onesta autocritica – riguarda in primis noi, richiamandoci a mettere in dubbio noi stessi prima ancora degli altri.