F35, costi raddoppiati. Come volevasi dimostrare…
8 Agosto 2017… e la sinistra che fa? Spunti per un dibattito “territoriale”””
19 Agosto 2017Siamo zombie? Alla ricerca di una via di fuga ma allo stesso impauriti dall’idea di imboccarla una volta trovata. Non nego la mia fragilità (sulle gambe come nella mente) quando mi percepisco disorientato nei confronti di riflessioni e successive – necessarie – scelte da intraprendere. Scelte che dovrebbero aiutarmi e aiutarci, perchè il singolo è nulla senza una collettività dentro la quale possa trovare realizzazione, a rimuovere le incrostazioni che reprimono la creatività collaborativa, la tensione a rendere più eque e giuste le condizioni di vita di ogni essere umano, la curiosità (oggi obbligatoria) di individuare e mettere alla prova nuovi paradigmi. Solo allora – pur senza avere in partenza la certezza di essersi mossi nella direzione giusta – il passo potrà essere meno incerto, l’esperienza di vita meno frammentata e confusa.
Abbiamo bisogno di rimettere in ordine i pezzi di una storia – quella dell’essere umano sulla Terra – sfuggitaci di mano e che sempre più preme su quelle che, almeno nell’ultimo secolo, abbiamo inteso come condizioni non negoziabili. La crescita infinita. Il progresso tecnologico come unica traiettoria possibili sulla strada tortuosa che ci conduce al futuro. Il dominio dell’uomo nei confronti di qualsiasi altra specie e della natura stessa, ridotta a contesto neutro dentro il quale nasciamo e viviamo. Quella dell’Occidente sulle restanti parti del pianeta. Della velocità sulla lentezza. Dell’individualismo sulla comunità. Della forma sulla sostanza. Della semplificazione (estrema) sulla complessità. Della sopraffazione e della violenza sul dialogo e sulla gestione costruttiva del conflitto.
Non mancano i segnali che ci dovrebbero mettere in guardia. Quelle che ci ostiniamo a definire emergenze altro non sono che le avvisaglie della transizione in atto. Di quel passaggio, non privo di rischi e e conflittualità, tra il “non più” e il “non ancora”. Un esempio? L’indicatore ambientale che prende il nome di Overshoot Day, ossia il giorno nel quale esauriamo le risorse che il pianeta è in grado di rigenerare. Dal 1970 (cadeva il 26 dicembre) a oggi (siamo arrivati ai primi giorni di agosto) la nostra insostenibile impronta ecologica è il principale attivatore di un conto alla rovescia che non riusciamo a rallentare e che ci rende debitori – con scarsa propensione a rientrare dal deficit accumulato negli anni – nei confronti del pianeta, l’unico – in coabitazione con qualche altro miliardo di uomini e donne, in aumento – su cui possiamo contare. La sabbia dentro la clessidra scivola troppo velocemente verso il basso, innescando una evidente reazione a catena. Sul terreno rimangono le cicatrici del nostro deleterio passaggio. Le siccità sempre più frequenti e prolungate che producono danni ambientali difficilmente quantificabili per l’ecosistema tutto, come nel caso del Lago di Bracciano delle ultime settimane, con ricadute per l’approvvigionamento idrico per tutta la città di Roma. Fenomeni metereologici sempre più radicali e ingovernabili, sotto l’effetto del potente driver delle temperature (in aumento), si riscontrano ad ogni latitudine. Trasformazioni globali che costringono al movimento milioni di persone, contribuendo a rendere ancora più caotica la geopolitica che la globalizzazione prefigurava cosmopolita e interconnessa e si trova oggi invece a rivendicare interessi nazionali (i porti di Sant Nazaire di Macron, per costruire navi da crociera ancora più grandi e inquinanti e mezzi adatti per nuove guerre, in nome del Pil da rilanciare) e a rinforzare confini sufficientemente solidi e presidiati per resistere a “invasioni” che “non ci possiamo permettere”. Confini sui quali non si sperimenta esclusivamente il tentativo di governo dei flussi migratori ma la formazione – impaurita, violenta e cinica – di un senso comune politico capace di tenere insieme destra e sinistra, orientate entrambe alla strenue difesa oltre che delle proprie frontiere anche dello status quo economico di cui l’Occidente ha fino a oggi beneficiato. Nuovi muri come reazione alla necessità – fortemente inevasa – di riorientare sguardo e azione per rispondere a quella che Ulrich Beck si è spinto a definire “Metamorfosi del mondo”. Un processo più radicale e profondo di una trasformazione, più netta e meno gestibile di un cambiamento, perché figlia di una vera e propria rivoluzione, che nulla lascia immutato e tutto pone sotto stress.
Negli ultimi mesi mi è capitato – fortunatamente – di imbattermi in una serie, non residuale, di autori che hanno accettato quest’interpretazione, sviluppandola. Chi partendo dai cambiamenti climatici (la prima questione in agenda, che nessun confine può lasciare fuori dalla propria porta di casa), chi dalle migrazioni, chi ancora dagli impatti sociali e politici della generale instabilità che attanaglia questo complicato (Zizek lo definirebbe interessante) inizio di millennio. Letture, poco tranquillizzanti ma non rimandabili, su e nell’Antropocene. Spunti per la predisposizione di una visione, di un piano.
Ulrich Beck |Metamorfosi del mondo | Laterza
Abbiamo bisogno di nuovi occhiali con cui guardare il mondo. Ne ho già scritto, e significa dotarsi di quelle tecniche che permettono di non sentirsi disarmati di fronte a scenari complessi. A monte di tale consapevolezza c’è però la presa di coscienza che le tensioni che stanno attraversando la contemporaneità non rappresentano una scossa di modesta entità e di breve durata ma un vero e proprio sconquasso che è destinato a sconvolgere – nella forma della metamorfosi, così come la definisce Beck – le condizioni precedentemente date. Nella transizione dentro la quale viviamo il filosofo della “società del rischio” ci offre il suo sguardo cosmopolita e ci chiede di essere sufficientemente ambiziosi nel tracciare rotte resilienti rispetto ai fenomeni che incrociamo – tecnologici, ambientali o sociali che siano -, conservando un certo grado di ottimismo e sviluppando una nuova passione politica.
“Da una parte abbiamo una generazione meno, costretta ad accettare quello che rispetto ai decenni precedenti è un arretramento materiale; dall’altra parte ecco invece una generazione più, che spinta dalle immagini di opulenza del Primo mondo vuole condividere quella ricchezza. Entrambe – questo è il punto cruciale – sono generazioni globali. Forse in futuro emergerà in modo più drammatico qualcosa di cui già oggi si colgono i lineamenti: un nuovo conflitto di redistribuzione globale. Un gruppo sta sulla difensiva, e con leggi e sbarramenti di confini cerca di tenersi stretto quel che resta dell’opulenza; gli altri si mettono in viaggio, vanno alla carica di quegli stessi confini, spinti dalla speranza di una vita migliore. Il risultato è una interazione estremamente conflittuale: una parte delle generazioni del rischio globale contro l’altra.”
Deborah Danowski, Eduardo Viveiros de Castro |Esiste un mondo a venire? |Nottetempo
“Uno degli aspetti più interessanti di questi tempi, come peraltro si è ampiamente osservato, è la sua incontrollata accelerazione. Il tempo è fuori sesto, e scorre sempre più rapidamente. “Le cose cambiano così velocemente che per noi è difficile star loro dietro”, constatava recentemente Bruno Latour.” Un libro che pone non una, ma La domanda. Perché se oggi è pacifico che l’impatto dell’impronta ecologica fuori controllo dell’essere umano è un tema ricorrente e sempre più discusso. Molto meno lo è la condivisione del rischio finale del meccanismo innescato dall’emersione delle società dei consumi (senza limiti, of course). Non siamo più di fronte alla necessaria valutazione di quale futuro desideriamo, ma nel dubbio che un futuro cui guardare esista ancora. Senza utilizzare toni apocalittici – non lo fanno neppure gli autori – va sottolineato come il tempo delle scelte sia questo e che quelle scelte spettino a ognuno di noi.
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Amitav Ghosh | La grande cecità | Neri Pozza
L’ipotetico punto di contatto tra la saggistica e la narrativa in questa breve bibliografia sta in questo che per il momento è il libro più importante che io abbia letto nel 2017. Non avevo letto nulla di Amitav Ghosh (mia colpa, mia grandissima colpa) e quando ho incrociato questo scritto ne sono rimasto fulminato. Per lo stile – un saggio scritto con la delicatezza e il ritmo del romanzo -, per i contenuti articolati e per la profondità di sguardo che riesce a offrire all’interno della dibattutissima tematiche del cambiamento climatico. E’ una critica profonda allo svuotamento di senso del ruolo dell’intellettuale, incapace di leggere la realtà se non dentro gli schemi che il pensiero unico (e il mercato) richiede e allo stesso tempo è un grido dall’allarme rispetto alle condizioni del Pianeta. Le due cose non sono separate, perché la mancanza di voci capaci di intuire e interpretare “l’imprevedibile” ha reso meno audaci e curiose le menti di lettori e cittadini. Oggi che “l’inaudito” – la fine del mondo di Deborah Danowski e Eduardo Viveiros de Castro – torna d’attualità, e ci spaventa, Amitav Ghosh non solo denuncia la grande cecità, ma tenta di romperne il meccanismo autoconservativo. Come? Raccontando storie meravigliose e indicando i punti lì dove sembra aprirsi uno spazio possibile nel velo che sembra nascondere la realtà, aiutandoci a dare forma ad altri immaginari possibili, capaci di discostarsi dal senso comune.
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Mohsin Hamid | Exit West | Einaudi
Ci sono storie che riescono a uscire dalle pagine, dialogando con lo spazio che circonda il libro, fino ad arrivare al mondo intero. Ci sono storie che riescono magnificamente a coniugare la necessità della finzione con la potenza montante del presente, della vita quotidiana che pulsa. “Exit West” utilizza un espediente (dei corridoi spazio-temporali sparsi nelle città, dentro armadi o al posto di normali porte) per togliere di mezzo la parte più raccontata dei flussi migratori – il viaggio – e concentrarsi sulle vite di chi, da un punto all’altro della Terra si muove, alla ricerca di condizioni di vita migliori. Svaniscono le categorie di rifugiato e di migrante economico. Perdono materialità i confini, siano essi da scavalcare o da presidiare. Non c’è più una casa nostra e una casa loro, benché non vengano mai meno nei personaggi i legami con il proprio passato e i propri affetti. Nadia e Saeed – le loro vite globalizzate e sconnesse – sono i nostri occhi su un popolo (senza Stato, o meglio con uno Stato grande quanto il Mondo) in viaggio. Nadia e Saeed – il loro amore, tanto fragile quanto profondo – sono la fotografia, non retorica e piena di spigoli – di un’umanità alla ricerca di stessa, diversa all’arrivo rispetto al momento della partenza.
Lefebvre Jeremie | Aprile |Fandango
La Francia è terra di passioni politiche che si esprimono in forme radicali. Il tema della rivolta non è confinato nei libri di storia e negli ultimi anni guardando oltralpe diverse fasi di movimentazione sociale – più o meno organizzate, più o meno diffuse – hanno saputo attraversare strade e piazze in maniera significativa, con episodi di riot urbano e di scontro diretto con la Polizia. L’esplosione delle Banlieues nel 2005 (e negli anni successivi), le dure proteste contro la riforma del lavoro (a più riprese) e l’esperienza della Nuit Debout – di cui ho parlato qui – sono solo alcuni esempi, quelli più rilevanti dal tempo del Maggio francese del 1968. E dopo Maggio viene Aprile, che ci ricorda quanto la rivolta – e l’attitudine a essa – non sia condizione sufficiente alla rivoluzione, benché in una certa dimensione sia di per sè necessaria al raggiungimento dell’obiettivo. In attesa di capire se anche Macron avrà il suo autunno caldo (il libro in questione sembra suggerire una risposta positiva a tal proposito) Jeremie Lefebvre propone un racconto strano, dal ritmo sincopato, pieno di salti narrativi. Nessuna velleità di proporre analisi raffinate dal punto di vista politico e sociale ma uno spunto acuto – disincantato quanto basta e privo di pregiudizi, al limite del cinismo – sullo stato di precarietà da un lato dei dispositivi del potere costituito e dall’altro degli istinti rivoluzionario che si vorrebbero pronti a mettersi in moto da un momento all’altro. Un libro dove si fa faticano a trovare i “buoni”, anche se potrebbe sembrare spontaneo parteggiare per gli insorti, che come prima azione di governo mettono in pratica una vera e propria sostituzione di popolazione. Il basso (come dice Marine Le Pen) prende il posto dell’alto, il proletario del padrone, il povero del ricco. La periferia si fa (o almeno, va in) centro. Per nulla lineare (può esserlo una rivoluzione?), composto di una molteplicità di punti di vista – dal dispaccio ufficiale alla scrittura rap di una giovane banlieusard -, Aprile è un romanzo che ha un inizio, il mondo che conosciamo (fatto di diseguaglianze profonde, di ingiustizie evidenti), ma fatica a trovare un (lieto?) fine. Un orizzonte che vada oltre il rigore ideologico delle derive post-rivoluzionarie e il ricomparire in piazza della ghigliottina, strumento di vendetta più che di liberazione. Un’avvertenza per chi sente – io per primo – l’urgenza di battersi per un mondo altro: ribellarsi non basta [cit. andatelo a cercare, è il titolo del prossimo libro che recensirò].