Vita e pensiero nel cuore della città
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14 Luglio 2022“La maledizione di vievere tempi interessanti‘ (124)
di Michele Nardelli
Quelle che ci ostiniamo a chiamare emergenze sono in realtà crisi. Non che non ci siano situazioni di emergenza che richiedono un intervento rapido per evitare il peggio. Ma continuare a definire in questo modo il manifestarsi di cambiamenti profondi a carattere strutturale è ipocrita e fuorviante.
Ipocrita perché induce a credere che si tratti di eventi casuali e privi di un nesso fra causa ed effetto. Fuorviante perché non ci porta ad indagare sulla natura di quel che avviene, ovvero sull’insostenibilità di un modello di sviluppo che abbiamo assunto come pensiero unico.
Potremmo dire che il concetto di emergenza è omologo a quello di resilienza. Anche in questo caso, di fronte al mutare di una condizione ogni essere vivente ricerca un suo modus vivendi che l’aiuti ad affrontare un contesto diverso. Ma emergenza e resilienza non pongono il nodo dell’intervenire alla radice dell’insostenibilità. Estranei alla politica.
Dovremmo invece parlare di crisi. L’origine etimologica di questa parola viene dal latino crisis e dal greco κρσις che significa “scelta, decisione“. Abbiamo a che fare con altrettanti esiti alla cui origine ci sono scelte e decisioni.
Crisi ecologiche, climatiche, sanitarie, demografiche, alimentari, migratorie, belliche… sono in genere affrontate al loro manifestarsi estremo e secondo un approccio disciplinare refrattario alla complessità, quasi non esistesse alcuna connessione fra loro.
Ed è proprio qui il problema. Non a caso, proprio con il diffondersi della pandemia, si è iniziato a parlare di sindemia, ovvero dell’intreccio di crisi inaffrontabili separatamente. Come non vedere che i fenomeni migratori hanno origine nelle aree dove guerre, accaparramento delle terre (e in genere delle risorse) o desertificazione stanno rendendo la vita delle persone insopportabile? Come non sapere che gran parte delle patologie sanitarie sono dovute all’alterazione dell’aria e dell’ambiente in cui viviamo, dell’acqua e del cibo con cui ci nutriamo? Come nasconderci che gli eventi estremi che devastano sempre più frequentemente intere regioni del pianeta sono dovute all’azione dell’uomo e nella fattispecie all’aumento della temperatura come effetto dell’emissione di gas climalteranti? E così via.
Siamo cioè in presenza – per dirla con Edgar Morin – di una policrisi che travalica le frontiere del sapere e delle forme di associazione che gli esseri umani si sono sin qui date. Ecco perché diviene urgente uno sguardo nuovo sul nostro presente, un cambio di paradigma che faccia della complessità il proprio orizzonte, capace di darsi nuovi occhiali o nuove categorie interpretative per leggere il nostro tempo.
A partire dalla descrizione del luogo in cui viviamo, la Terra. L’abbiamo raccontata secondo le convenienze dei vincitori. La carta di Mercatore (1569), ancor oggi la più diffusa nella geografia tradizionale, deformando la realtà assegnava al nord un ruolo preminente. Solo quattrocento anni dopo, con la Carta di Peters (1973) le proporzioni si sono ristabilite ma viene scarsamente utilizzata. In generale vi predomina la divisione in stati nazionali, esito di guerre, pogrom e migrazioni forzate che non segnano certo pagine nobili della storia. E di un paradigma, quello di stato nazione, che contraddice lo stato di diritto.
La globalizzazione ha reso obsoleto questo racconto. Non che ancora non predomino i nazionalismi, ma nel tremendo paradosso dove la dialettica globale si svolge fra il neoliberismo (fatto di mercati finanziari, corridoi transnazionali, piattaforme a-geografiche, mafie e crimine organizzato) e sovranismi che – pur in un’analoga matrice ideologica – erigono muri e discriminano in nome del sangue e del suolo.
Eppure un diverso sguardo è possibile, ci attende. E’ quello degli ecosistemi, attraverso i quali ridisegnare le priorità, le forme delle relazioni fra gli umani e il nostro rapporto con la natura. Sono le terre alte, le città metropolitane, le aree interne, le terre di mare. Insofferenti ai confini artificiali, gli ecosistemi esprimono problematiche comuni ma al tempo stesso riflettono degli intrecci culturali e dei sincretismi che la storia ha saputo realizzare.
Questo aspetto introduce un altro cambio di paradigma. Quello relativo al modello di sviluppo che si fonda su un’idea di progresso antropocentrico e senza limiti. Walter Benjamin un secolo fa nella descrizione dell’Angelus Novus lo indicava con la metafora della tempesta1. Sguardo profetico, naturalmente inascoltato. Un delirio che nell’arco di cent’anni, ha cambiato il volto del nostro pianeta tanto che oggi il peso dell’artificiale ha superato quello del naturale.
Voci nel deserto. Dopo il boom economico del secondo dopoguerra – era il 1972 – con il Rapporto sui limiti dello sviluppo, gli scienziati riuniti nel Club di Roma avevano messo in guardia il pianeta: procedendo sulla strada imboccata nell’arco di un secolo il pianeta si sarebbe trovato nel territorio dell’insostenibilità. Si rispose che la scienza avrebbe messo in campo le contromisure rispetto agli effetti collaterali del progresso. Ma già dopo solo qualche anno l’impronta ecologica ci indicava come l’umanità andava consumando più di quanto gli ecosistemi erano in grado di produrre. E quelle previsioni, bollate come catastrofismo, si sono andate materializzando in cinquant’anni, ovvero nella metà del tempo previsto.
Lasso di tempo nel quale si è rovesciato il tradizionale disallineamento fra tempi storici e tempi biologici: nell’arco delle nostre vite avvengono mutamenti che prima richiedevano ere geologiche. Eppure le leggi dell’entropia hanno messo da tempo il genere umano di fronte al concetto di limite, ma si è preferito immaginare che le tecnologie più sofisticate avrebbero risolto il problema. Imbrigliare gli atomi si è dimostrato un sogno folle dal quale non ci siamo ancora risvegliati. Tanto è vero che la cultura del limite non ha ancora cittadinanza nel dibattito pubblico.
Solo qualche spunto. Ovviamente il campo della ricerca di un nuovo pensiero non finisce qui. Trecento anni di cultura positivista hanno plasmato il pianeta e reso omologhe le principali culture politiche che si sono affrontate nelle storia moderna. Per uscirne serve uno sforzo di ricerca tutt’altro che banale e richiede che al lavoro vi sia una grande comunità di pensiero che, a partire dai mille rivoli delle nostre responsabilità personali, metta in moto quel “risveglio dell’immaginario“ di cui parlano Mauro Ceruti e Francesco Bellusci2.
Nella consapevolezza che l’ingorgo delle crisi accelera il deragliamento.
1Walter Benjamin, Angelus Novus. Saggi e frammenti. Einaudi, 2014
2Mauro Ceruti – Francesco Bellusci, Abitare la complessità. La sida di un destino comune. Mimesis, 2020
1 Comments
Rimanendo nel clima riflessivo circa la capacità di scartare dai soliti schemi, per individuare strade in grado di rompere con l’ineluttabilità della ‘crisi’, sposterei lo sguardo sulla assenza di senso del limite di Zelensky che non accenna a ripensare la folle corsa a riarmare per vincere Putin. Forse servirebbe il buon senso della madre che, quando re Salomone, di fronte alla rivendicazione dello stesso bimbo, proponeva di tagliarlo in due, aveva anteposto la vita del figlio alla rivendicazione al possesso.