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La lezione di un economista

Nel 1945, all’indomani della seconda guerra mondiale, si può dire che l’economia italiana avesse appena avviato il processo di industrializzazione. Non mancavano anche allora produzioni industriali avanzate e diversificate; ma queste erano prevalentemente concentrate nel cosiddetto «triangolo industriale», mentre le altre regioni, salvo rade eccezioni locali, restavano essenzialmente agricole. Alla fine del secolo, l’Italia viene invece riconosciuta come la quarta o la quinta potenza industriale del mondo.

Questa lunga strada di industrializzazione e di progresso è stata percorsa dall’economia italiana nelle condizioni tipiche di un paese da un lato piccolo e largamente aperto agli scambi con l’estero, dall’altro in possesso di un’industria che, mancando di adeguata autonomia tecnologica, non riusciva ad acquisire, nonostante il continuo aggiornamento, posizioni di autentica avanguardia. Come ogni economia di piccole dimensioni, anche l’economia italiana doveva attingere largamente all’estero le risorse produttive necessarie al proprio sviluppo: il che significa che un flusso crescente di esportazioni era necessario per fare fronte al fabbisogno dì importazioni. Non disponendo di un’industria di avanguardia, le esportazioni italiane dovevano farsi strada sui mercati mondiali facendo affidamento più sul prezzo che sulla novità del prodotto. L’industria italiana si è trovata in tal modo costretta a perseguire aumenti costanti della produttività del lavoro nelle industrie esportatrici, evitando al tempo stesso aumenti eccessivi nel livello dei salari.

L’azione congiunta di tali esigenze ha fatto sì che lo sviluppo industriale italiano si sia verificato sempre senza grande assorbimento di manodopera, il che ha perpetuato il problema antico dell’economia italiana, quello della disoccupazione strutturale. «La disoccupazione di massa – scrive Vittorio Foa – è il vero grande protagonista della storia italiana del secondo dopoguerra» (V. Foa 1975, 26). Le grandi decisioni di politica economica, se analizzate nei loro motivi profondi, possono essere tutte ricondotte al nodo centrale, consistente nell’esigenza di trovare collocazione alla massa di disoccupati, o quanto meno di evitare che la pressione della disoccupazione si tramutasse in fattore di instabilità sociale.

Per la medesima ragione, fenomeno di rilevanza determinante nel secondo dopoguerra è stato quello delle emigrazioni. Negli anni che precedettero la prima guerra mondiale, le emigrazioni, specie quelle transoceaniche, avevano raggiungo livelli elevatissimi. Come vedremo, la ripresa delle correnti migratorie negli anni cinquanta e sessanta comportò modificazioni profonde nell’assetto del mercato del lavoro con ripercussioni sullo stesso processo di accumulazione, mentre l’arresto delle emigrazioni negli anni settanta produsse modificazioni altrettanto pronunciate nelle modalità dell’industrializzazione e nel contenuto della spesa pubblica.

Le vicende del cinquantennio che va dal termine del secondo conflitto mondiale ai giorni nostri possono essere suddivise nelle seguenti fasi principali:

a) La ricostruzione (1945-55) Nel periodo iniziale, il cosiddetto periodo della ricostruzione, il paese si trovò a fronteggiare un problema duplice, e a prima vista apertamente contraddittorio: ristrutturare e sviluppare l’apparato industriale, per renderlo pronto all’ingresso nei mercati dell’Europa occidentale, e al tempo stesso risolvere il problema della disoccupazione, trovando ad esso una soluzione interna, dal momento che le possibilità di sbocchi migratori sembravano allora totalmente estinte. Le due esigenze vennero conciliate con due ordini di interventi, che si susseguirono a ruota: dapprima la ristrutturazione industriale nelle regioni del Nord e, immediatamente dopo, l’avvio dei programmi di riforma agraria e di opere pubbliche straordinarie nel Mezzogiorno, dove il problema della disoccupazione era più acuto.

b) Il periodo del miracolo economico (1955-63) Questo periodo, e ancor più segnatamente il quinquennio 1958-63, viene descritto come un susseguirsi di anni miracolosi, nel corso dei quali l’economia italiana ottenne tre obiettivi usualmente considerati, se non addirittura incompatibili, almeno difficili a realizzare congiuntamente: investimenti elevati, stabilità dei prezzi, equilibrio della bilancia dei pagamenti. Lo sviluppo veloce della produzione, unito a un flusso cospicuo di emigrazione verso Svizzera, Francia e Germania, contribuì a risolvere, almeno temporaneamente, il problema della disoccupazione. Sdrammatizzato il problema del mercato del lavoro, il capitalismo italiano poté dedicarsi all’investimento intensivo nel settore industriale, sviluppare le esportazioni, inserire l’economia nazionale nel contesto europeo. Per le medesime ragioni, fu possibile in questi anni avviare nel Mezzogiorno una politica di industrializzazione accelerata.

c) Lotte sindacali (1963-73) In questi anni, gli eventi esterni risultano meno favorevoli rispetto al passato. Il flusso migratorio verso i paesi europei comincia a declinare. Al termine degli anni sessanta le emigrazioni nette finiscono quasi con l’annullarsi, il che ripropone in termini aggravati il problema della disoccupazione. Al tempo stesso, le lotte sindacali, iniziatesi nell’industria del Nord fin dal 1959, riprendono a somiglianza di quanto accade in altri paesi (segnatamente in Francia e in Germania), e toccano il culmine nell’«autunno caldo» del 1969. Una prima manovra di deflazione, attuata nel 1963, riduce temporaneamente la combattività sindacale e consente alle imprese una prima ristrutturazione, consistente soprattutto nella riorganizzazione interna del processo produttivo. Dopo la ripresa delle lotte sindacali nel 1969, l’industria avvia una seconda e più vasta manovra di ristrutturazione, basata sul decentramento produttivo e sullo sviluppo della piccola e media impresa. Questo, insieme all’espansione progressiva del settore dei servizi, consente di riassorbire, almeno in parte, la disoccupazione.

d) Le crisi del petrolio (1973-79) Nel corso degli anni settanta, la scena internazionale subisce cambiamenti considerevoli, che pongono all’economia italiana problemi nuovi e di non facile soluzione. Con il 1971 ha inizio un rapido aumento dei prezzi internazionali delle materie prime. Tale aumento, in seguito al conflitto scoppiato fra lo Stato d’Israele e i paesi arabi confinanti (la cosiddetta guerra del Kippur), sbocca nella decisione dell’Opec (Organization of the Petroleum Exporting Countries, Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio) di quadruplicare il prezzo del petrolio greggio. Nel 1979, un nuovo aumento del prezzo del petrolio determinerà una seconda «crisi petrolifera». Le redistribuzione di reddito a favore dei paesi produttori di petrolio modifica la struttura dei flussi commerciali. Al tempo stesso, emergono nel mercato mondiale i Nuovi paesi industrializzati (Hong Kong, Singapore, Corea, Taiwan e altri ancora) che, nel settore delle produzioni tradizionali, all’ombra dell’economia giapponese, muovono una concorrenza irresistibile ai paesi di più vecchia industrializzazione.

L’industria della Germania Federale, sostenuta da tecnologie d’avanguardia e, sotto il profilo finanziario, in posizione tale da dominare i settori industriali dei paesi emergenti, riesce a tenere testa a questi eventi assai meglio delle economie degli altri paesi europei. La Germania Federale si afferma come economia guida in Europa e il marco come valuta centrale tra le valute europee. Si formano così tre grandi aree valutarie, rispettivamente del dollaro, del marco e dello yen. L’industria italiana è adesso costretta a lottare su due fronti, da un lato contro i paesi industriali avanzati, che muovono concorrenza servendosi di tecnologie d’avanguardia, dall’altro contro i paesi di nuova industrializzazione, che si battono con le armi del prezzo.

Sconvolgimenti paralleli si verificano nel settore monetario. L’emergere del marco e dello yen come nuove valute forti provoca la crisi del dollaro, che nel 1971 viene dichiarato inconvertibile. Questa decisione segna la fine del sistema dei pagamenti internazionali così come era emerso nel 1944 dagli accordi di Bretton Woods. Nel 1973, i paesi europei abbandonano il sistema dei cambi fissi. Anche l’Italia si affida a un sistema di cambi flessibili che resta in vigore fino al 1979, anno in cui l’Italia aderisce al nuovo Sistema monetario europeo, basato su cambi stabili tra valute europee e cambi flessibili rispetto al dollaro e allo yen.

e) L’integrazione monetaria europea. Gli ultimi vent’anni sono dominati dall’obiettivo di estendere l’integrazione europea dal campo commerciale al settore finanziario e monetario. In questa prospettiva, i paesi europei si pongono l’obiettivo di realizzare cambi stabili nell’ambito dell’Unione europea. L’Italia aderisce al Sistema monetario europeo nel 1979, ma nel 1992, sotto l’urto di ondate speculative, è costretta a uscirne per quattro anni. Al suo rientro nel Sistema, nel novembre 1996, l’obiettivo finale dell’Unione europea, in seguito all’approvazione del Trattato di Maastricht (1992), è diventato assai più ambizioso: trasformare l’Unione europea in una unione monetaria, dotata di moneta unica e di una sola Banca centrale europea. I vincoli imposti da questo obiettivo risultano assai più stringenti di quelli che vent’anni prima erano scaturiti dal Sistema monetario europeo. Nello sforzo di prepararsi all’unione monetaria, tutti i paesi europei mettono in atto una politica rigorosa di risanamento del bilancio pubblico e di ristrutturazione industriale. L’Italia, oberata da un debito pubblico assai più elevato della media europea, deve percorrere questa strada a ritmo accelerato. Ne deriva una veloce caduta dell’occupazione, soprattutto nella grande industria, che, congiunta alla dispersione della classe lavoratrice in una miriade di opifici minori e all’espansione incontrollata del lavoro sommerso, riduce progressivamente la forza contrattuale dei sindacati, sia sul piano salariale sia su quello normativo. Sul terreno finanziario (stabilità dei prezzi, riduzione del disavanzo pubblico, riduzione dei tassi di interesse), la politica di rigore ottiene rapidi successi. Se ne scontano le conseguenze sul terreno reale: la disoccupazione cresce, crescono le diseguaglianze nella distribuzione personale dei redditi, crescono nuovamente le distanze fra il Centro-Nord e il Mezzogiorno.

(1) Le opere generali riguardanti la storia d’Italia, sotto il profilo economico e politico, sono numerose. Ne indichiamo soltanto alcune fra le più significative per le vicende economiche: Castronovo 1995, specie capp. V e VI; la Storia dell’Italia repubblicana coordinata da Barbagallo (1995-97); Ginsborg 1989 e 1998; Bianchi e Casarosa 1991; Gnesutta Cicarone 1993; Ciocca 1994; Pizzuti 1994; Balcet 1997; F. Barca 1997. Di particolare interesse De Rosa 1997, che riassume e commenta saggi pubblicati nel corso del tempo, presentando in tal modo gli eventi così come furono visti e giudicati dagli studiosi contemporanei.

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