«Sicurezza». Oggi (Café de la Paix, ore 20.00) la presentazione del nuovo lavoro di Mauro Cereghini e Michele Nardelli
13 Luglio 2018Ecco perché il nazionalismo è una stronzata
15 Luglio 2018Caro Michele,
abbiamo seguito il sogno di un “futuro luminoso dell’umanità” come scriveva il vecchio Marx. Oggi cerchiamo di uscire dalla notte.
Sai che io sono ben lungi dall’essere un seguace di AMLO (Andrés Manuel López Obrador), però sono ancora più lontano dal voler mantenere il paese sul “despeñadero” (baratro).
Possiamo assistere alla disintegrazione della nazione e non perché AMLO arriva al potere, ma perché coloro che hanno esercitato sin qui il potere sono degradati cedendo alla criminalità organizzata, creando un danno immenso difficile da fermare.
Ristabilire la fiducia è un compito arduo che in questa fase sembra toccare a Lopez Obrador. Non so se questa alleanza di forze ci riuscirà, ma non vedo un altro candidato in grado di farlo.
Darle il potere presidenziale può essere l’impegno e la strada per riconquistare il governo, il cui consenso è dovuto principalmente ai meccanismi di compravendita che ha portato all’attuale disintegrazione.
Questa è la partita che si gioca con le prossime elezioni del primo luglio.
Carlos
§§§
Così scrive l’amico Carlos da Città del Messico. Una partita elettorale importante quella che si gioca il primo luglio in un paese che dovremmo considerare nel suo valore di laboratorio della modernità, perché contrariamente a quel che se ne pensa in Europa di questo si tratta.
Amo Enzo Jannacci, ma il Messico non è “la faccia triste dell’America”. Questo paese ha conosciuto la prima rivoluzione democratica del Novecento, la sua Università (UNAM) è fra le più prestigiose al mondo, il suo tessuto culturale è raffinatissimo, lo stato sociale è stato lungo il Novecento ai livelli più alti mai sperimentati e questo malgrado l’involuzione corporativa degli ultimi decenni, è stato la più grande terra d’asilo rispetto alle dittature sud e centro americane quando negli USA c’era ancora la discriminazione razziale, le sue città sono costruite con i sistemi antisismici più avanzati… E tante altre cose ancora, nella buona come nella cattiva sorte.
La prima volta che ci andai era la fine di maggio del 1994, ventiquattro anni fa. Qualche giorno prima avevo ricevuto una telefonata dall’amico Alberto Tridente, a quel tempo parlamentare europeo dopo essere stato responsabile internazionale della FLM, la Federazione dei lavoratori metalmeccanici, che mi proponeva di raggiungerlo a Città del Messico per partecipare alla campagna elettorale di Cuauhtemoc Cardenas, candidato presidente per il PRD, di cui Alberto era sostenitore ed amico.
Non mi feci pregare e dopo qualche giorno eravamo insieme nella carovana del “presidente”, a battere il paese nelle grandi città come nei villaggi sperduti dove i contadini vestiti di bianco venivano incontro alla carovana di Cuauhtemoc per scortare il loro candidato fino al luogo dove si sarebbe svolto il comizio.
Furono giornate davvero entusiasmanti anche se sapevamo che l’impresa era di quelle impossibili, tanto era forte allora il PRI, il partito della rivoluzione istituzionale da sempre al potere. Verso Alberto e gli amici italiani c’era da parte loro quel sentimento internazionalista che ci faceva sentire parte di un’impresa comune. Nella storia, insomma.
Eppure mi resi conto che c’era qualcosa che non andava. Qualche mese prima, il 1 gennaio di quello stesso anno, la rivolta delle popolazioni indigene del Chiapas aveva posto una serie di questioni cruciali che la sinistra, anche quella messicana, non aveva compreso. In primis, l’idea di un autogoverno che non rivendicava autodeterminazione. Un cambio di paradigma che veniva dalla Selva non rientrava nello schema. Tanto che in quella campagna elettorale dell’insurrezione zapatista se ne parlava poco e con l’imbarazzo verso un avvenimento che avveniva “nella parte arretrata del paese”, mettendo le vecchie categorie in braghe di tela.
Le discussioni erano accese e duravano fino a tardi. L’esperienza di DP si era conclusa e con Alberto ragionavamo di come in quegli anni in cui tutto stava cambiando potevamo essere sul pezzo, evitando cioè atteggiamenti di tipo conservatore e al tempo stesso l’idea che la storia fosse finita. Perché se in effetti una storia si era conclusa, non per questo veniva meno il tema della liberazione dal giogo del profitto, delle multinazionali come del potere statuale e centralista. Noi in Trentino sperimentammo Solidarietà, lui aderì quand’anche in forma critica al PDS, entrambi con l’idea di sparigliare.
Incontrammo numerosi amici, persone che talvolta portavano sui loro volti i segni di vite spese senza risparmio e di dittature militari che non si facevano certo scrupolo ad usare la violenza. Oppure che avevano scelto altre strade, forse comprendendo per tempo che i sentieri sino a quel punto percorsi dalla sinistra non avrebbero portato a nulla. Fu in quel crogiolo di storie e di vite che conobbi Carlos e Pano. Eravamo loro ospiti e fra pensieri ed eresie, fra musica e cibo, fra utopia e disincanto, scattò qualcosa di profondo che ancora dura nel tempo.
Quando finì la campagna elettorale, con un altro amico italiano, Mauro Castagnaro, e la mia compagna Gabriella (che nel frattempo ci aveva raggiunti), andai a San Cristobal de las Casas, l’epicentro della sollevazione indigena. Con uno sguardo curioso certamente e forse fin troppo trattenuto per non farsi prendere dalla dimensione romantica di quell’insurrezione, che pure non ci impedì di acquistare con un po’ di autoironia le miniature raffiguranti il subcomandande Marcos, già icona di quell’insurrezione.
Quella città ci apparve in tutto suo splendore malgrado fosse presidiata dall’esercito repubblicano che aveva fatto il vuoto attorno alla Selva Lacandona. Come se la repressione militare evidenziasse la grande disparità di forze in campo e al tempo stesso come in realtà nulla potesse contro l’irriducibilità della condizione indigena (più che delle forze zapatiste). Creando così una sorta di interregno che si sarebbe protratto negli anni successivi fino e oltre la lunga marcia zapatista che approdò fra un’ala di folla acclamante nello Zocalo del Distretto Federale del 2001.
Tornammo più volte in Messico e, dieci anni più tardi, anche in Chiapas, ogni volta riportando impressioni contraddittorie. Per una classe dirigente zapatista molto attenta (ricordo gli incontri molto stimolanti che avemmo insieme all’amico Emilio Molinari nella Selva e a Ocosingo) ma anche isolata, per un paese che ancora parlava (e parla) di una “questione indigena”, per un paese dominato dalle corporazioni sociali, per un paese moderno che secondo i paradigmi dell’Occidente viene considerato sottosviluppato, per una chiesa che sentiva l’influenza della teologia della liberazione, per una dialettica politica storicamente molto vivace ma negli ultimi anni segnata dalla corruzione e dalla criminalità organizzata.
In questi anni il Messico è cambiato ed involuto. Le dinamiche che l’hanno segnato non sono poi molto diverse dal vento che spira negli Stati Uniti e in Europa. E però è un paese che sa reagire, come è accaduto con il recente terremoto dove la società civile ha dato il meglio di sé.
Una reazione positiva che sembra influenzare anche il voto di domenica, laddove tutti i sondaggi danno come vincitore con ampio margine Andres Manuel Lopez Obrador, AMLO, governatore del Distretto Federale (Città del Messico). AMLO è stato candidato della sinistra nelle due precedenti elezioni presidenziali (sfiorando l’elezione tanto che si era parlato di un risultato condizionato dai brogli) ed ora si presenta con il sostegno del Movimento di Rigenerazione Nazionale (Morena) in una coalizione di centrosinistra. Quel che ora sembra essere cambiato rispetto alle elezioni precedenti è il contesto di malgoverno e di disintegrazione diffusa dovuta alla corruzione e al peso crescente della criminalità organizzata e questo sussulto di dignità che AMLO ha saputo interpretare.
Forse per il Messico è una buona occasione per mettersi alle spalle la notte. Poi toccherà alla coalizione di centrosinistra immaginare un progetto capace di tenere insieme questo grande, bellissimo e straordinario paese.