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Dieci anni fa ci lasciava Massimo Gorla. Un ricordo.

Massimo Gorla era un amico speciale nonostante lui fosse di una generazione precedente alla mia. Insieme attraversammo gli anni entusiasmanti dell’utopia concreta. Che Franco Calamida descrisse così: «Un giorno, ed era un bel giorno, Massimo mi disse: “Franco, secondo me dovremmo fare la rivoluzione”; risposi: “Va bene, facciamola”. In realtà non pensavamo che la rivoluzione fosse vicina e possibile. Tentammo la scalata al cielo, che è impossibile, ma bene abbiamo fatto a tentarla, a sfidare la realtà». Furono anni nei quali il mondo intorno a noi cambiò in profondità. Non era la rivoluzione, ma un tempo fecondo di grandi riforme che cambiarono in senso civile questo paese. La fine di quella storia coincise con la fine del Novecento e Massimo proprio non se la sentiva di iniziarne un’altra, avrebbe richiesto l’energia che non aveva.

Aggrottava la fronte, Massimo, di fronte al vitalismo dell’amico Emilio. Ricordo come lo osservava, con l’amorevole disincanto (e un po’ di ironia) di un fratello maggiore. Sapeva amare la vita, Massimo, come la bellezza delle persone, dei luoghi, delle cose. E di fronte alla deriva di quel che vedeva attorno a sé non trovava nulla di meglio che riprendere la celebre espressione di Eduardo “A’ da passà a’ nuttata”.

Oggi sono dieci anni che Massimo Gorla non è più di questo mondo. Intorno a quella tavola nel cuore di Milano forse non ero il solo ad avvertirne l’assenza. La stessa che ho sentito stamane nel rileggere le pagine di “Un gentiluomo comunista” e nel ripensare alle nostre conversazioni notturne davanti ad una bottiglia di vino. Un vuoto che va oltre la dimensione personale e che oggi, forse ancora più di allora, aveva a che fare con il venir meno di quel pensiero collettivo che dava significato al nostro agire politico.

Forse perché “a’ nuttata”, caro Massimo, ancora “a’ da passà”.

 

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