Da Oriente a Occidente, lungo gli scogli in cui si è incagliato il progetto politico europeo
21 Ottobre 2019La vita è adesso. Grazie Eugenio.
30 Ottobre 2019L’odio per i curdi e per tutte le realtà diverse è invece ben radicato in Turchia. Non c’era allora il Sultano Erdogan; c’erano i governi turchi, fascisti, golpisti e… laici. Che in dieci anni, dall’83 al ’93, avevano ucciso più di trentamila persone, incarcerato e torturato altre migliaia, bruciato tremila villaggi e provocato tre milioni di profughi, nel silenzio dei democratici europei. Una guerra desaparecida per la stampa internazionale che sapeva e taceva. E con l’Italia che consegnava nel disinteresse generale Ocalan al carcere a vita.
Erano quelli i governi turchi delle dighe sul Tigri e l’Eufrate: un progetto di 60 dighe, 90 impianti, 84 villaggi da mandare sott’acqua, duecentomila deportati e imprese occidentali coinvolte, come l’americana Bechtel di cui erano azioniste Edison e AEM di Milano. E banche come Unicredit, e la diga di Illisu che ha sommerso Hassankief, la piccola Matera curda.
Io ho conosciuto quella lotta e ho interloquito con quel popolo. Interloquito sì, discusso con loro senza remore e presunzione, sui limiti delle armi e del nazionalismo, della necessità di dare un senso universale alla lotta curda per l’umanità e i beni comuni.
La mia prima volta in Kurdistan è nel 1993, a Van, nel pieno dell’offensiva turca sull’Ararat. I guerriglieri del PKK avevano preso come ostaggi tre turisti italiani uno dei quali che cercava l’arca di Noè sull’Ararat, e li avrebbero consegnati solo a dei parlamentari europei. Il primo incontro è ad Ankara con i parlamentari del partito curdo legale. Attorno a quel tavolo: io, Giovanni Russo Spena, Chiara Ingrao, un ciellino e un leghista e con noi i giornalisti delle più grandi testate italiane.
I parlamentari curdi raccontarono delle stragi, ci dissero che era loro proibito parlare la lingua curda, avere radio curde o scuole curde. E che la parlamentare Leyla Zana che aveva osato parlare in curdo era in carcere con una condanna a 15 anni. Guardi i loro visi mentre parlano e ci leggo il coraggio e la tristezza del sapere che per essere qui con noi domani saranno in carcere. Guardo le facce dei giornalisti del Corriere, della Repubblica, del Giornale, dell’Unità, è incredibile, sembrano quasi annoiati, la loro penna non scrive appunti sui notes. Dei curdi scriverà solo Giuliana Sgrena del Manifesto e ne parlerà un giovane Michele Migone di Radio Popolare.
La nostra destinazione è Van dove, non si sa come, verranno liberati i sequestrati. Van, ovunque blindati e soldati; sono in tutte le strade e sui muri delle case ci sono altoparlanti, ogni tanto urlano ordini ai cittadini o annunciano il coprifuoco, ogni tanto a caso, qualcuno viene perquisito. In albergo ci rendiamo conto che siamo sequestrati. Il segnale arriva, gli ostaggi saranno liberati a 80 km da Van, a Dugubayazi una cittadina sull’Ararat dove si combatte aspramente. Al nostro arrivo siamo chiusi in una specie di carcere. Ci libereranno più tardi informandoci che gli ostaggi sono stati liberati.
Torniamo di notte a Van, in mezzo ai blindati, mentre il fuoco delle bombe al fosforo brucia i villaggi sull’Ararat. Tornerò nel Kurdistan per il processo a Dino Frisullo da mesi in carcere a Dyarbakir. Siamo in tre soli italiani presenti, nessun giornalista. Dino a Dyarbakir è un eroe. Durante la festa del Nevroz, mentre i soldati sparano, colpiscono con i calci del fucile donne e vecchi, Dino sta sulle spalle di due giovani curdi e sventola la bandiera curda.
Ai processi i giudici sono militari e le udienze sono come una catena di montaggio, durano 10 minuti e si concludono tutti con pesanti condanne. Fuori all’ingresso principale, le donne: mogli, mamme e sorelle dei detenuti stanno lì in tante, raggruppate in un angolo. Volti di contadine, immagini del dolore e della fierezza, portano i colori curdi proibiti, in testa uno scialle quasi un velo, bianco, orlato. Le immagini mi arrivano come flash di una storia antica. Non potranno assistere al processo, non vedranno i loro cari che entreranno da un’altra parte. Aspetteranno che passino davanti a loro i pulmini dalle finestre sbarrate. Cercheranno di riconoscere le mani che si agitano tra le sbarre in un saluto, anche questo è un flash di una storia già vista. Si forma così lo spirito delle donne del Rojava. Le sentirò dopo queste madri, tante volte, a Istanbul, nella casa delle madri dei detenuti, sentirò racconti di figli torturati, di figli che stavano morendo per lo sciopero della fame, di figli che si erano dati fuoco per protesta.
Dino fu liberato, intervenne e pronunciò un duro atto di accusa al regime e ai militari. Dino non c’è più, morì un anno dopo. Io ritornerò, per la revisione del processo a Leyla Zana, con Luigi Vinci l’unico parlamentare europeo a porre in Europa la questione curda e portare la commissione speciale per l’ingresso della Turchia in Europa, ai processi di Ankara. Silvana la sua compagna, riuscì ad organizzare una grande assemblea a Milano e fare della libertà per Leyla Zana una battaglia anche nostra.
Il processo. Una barriera di militari tra i giudici, anche loro militari, e il pubblico. Tuta mimetica, passamontagna e fucili mitragliatori rivolti verso di noi, verso il pubblico. Gli avvocati e gli imputati interrotti in continuazione. La parola curdo proibita. Tornerò nel 2008, a Istanbul, per preparare con i professori dell’Università di Istanbul e alcuni sindacalisti turchi, il Forum Mondiale Alternativo dell’acqua del 2009. Temo che quelle persone oggi siano tutte in carcere. Erano della sinistra turca e come quasi tutta la sinistra turca erano marxisti duri.
Dell’acqua capivano poco: “il problema non è l’acqua, il problema è il capitalismo”. Ma ciò che mi colpì è che erano nazionalisti, se parlavi dei curdi reagivano rabbiosi. Volevano escluderli dal Forum alternativo. Non so come riuscii a litigare in italiano e loro in turco. Alla fine i curdi parteciparono ed erano donne quelle che parlarono. Eppure questa sinistra era di persone che per la loro militanza rischiavano la galera. La manifestazione del 1°Maggio a Istanbul sfilava su una superstrada. La sinistra sfilava su di una carreggiata e i curdi sull’altra, come due distinte manifestazioni. L’esercito invece stava in alto, sui numerosi cavalcavia, con i fucili spianati verso il basso, verso entrambi.
Tornerò in Turchia nel 2009 per il Forum e per precederlo da una carovana dell’acqua in kurdistan promossa dal Contratto mondiale dell’acqua. Incontreremo Leyla Zana liberata dopo 12 anni, gli universitari, l’ordine degli ingegneri, gli amministratori di Dyarbakir, il sindaco di Batman, per parlare di acqua e di pace nell’area. Per parlare del ruolo dei curdi nella geopolitica Turca.
Anche a Bruxelles, al Meeting europeo promosso dal gruppo parlamentare curdo in Turchia e dal GUE, da Luigi Vinci prima e Vittorio Agnoletto e Roberto Musacchio poi, cercai di dare un senso universale all’impegno dei curdi per un bene comune come l’acqua del Tigri e dell’Eufrate, minacciosi rubinetti per l’Iraq e la Siria soprattutto.
Io e Silvana Barbieri portammo Leyla Zana in Italia a parlare della libertà e di dighe sui due fiumi più universali della Terra. Poca attenzione, nessuno allora parlava dei curdi. Rojava ha rotto il silenzio, ma c’è un legame tra questa vecchia storia e Rojava, e c’è la memoria dell’evoluzione della coscienza di un popolo che è bene non perdere mai.