Lo zaino e la topolino amaranto
26 Febbraio 2017L’ulivo e il senso del limite
29 Marzo 2017E’ questo, in effetti, ciò che ho imparato a fare in tempi di sorvolatori del mondo, di storytelling, di flussi che impattano nei luoghi mutandoli antropologicamente, culturalmente, socialmente ed economicamente. Adottando lo sguardo tripartito di Braudel partirei, come sempre, dal basso, dal processo di deposito delle polveri sottili dei flussi nei polmoni delle “vite minuscole”, della vita quotidiana, nel loro, un po’ come per noi, non riconoscersi più in ciò che era abituale. Non è forse anche questo che occorre volgere lo sguardo nel salto d’epoca?
Gli analisti trionfanti dell’ipermodernità raccontano un salto d’epoca in cui è la rete a interconnettere poteri, mercati e vita quotidiana, attraverso algoritmi che contemplano le vite soltanto in funzione della società dello spettacolo. Spero che tutto questo non ti suoni troppo retrò, ma credo che la parola chiave di tanti comportamenti collettivi sia “sommerso”, diventato, nella discontinuità di inizio secolo, sommerso carsico e non più sommerso ascendente. Aggiungo per noi, che questo sommerso carsico ha poco a che fare con la vecchia talpa di marxiana memoria.
Con buona pace della rete, riappare il tema del rendersi invisibili ai poteri, alle tasse, ai mercati, alla confluenza con i tanti precipitati nel sommerso della povertà, della società dello scarto e dei dannati della terra, il cui fiume è diventato il Mediterraneo reso visibile solo dalla voce di Papa Francesco. Scomporre e ricomporre i detriti di questo fiume mi pare questione sociale e politica, avendo chiaro che pochi sono i salvati e tanti i sommersi, come ha cercato di affermare a suo tempo anche la sommersa commissione sulla povertà da te presieduta.
In questo magma carsico si evidenzia un’altra questione: lo sfarinamento della società di mezzo, intesa sia come crisi del tessuto pre politico della rappresentanza sociale, sia come sfarinamento dei ceti medi, sempre facendo riferimento a quelle lunghe derive economiche del sommerso ascendente e di composizione sociale che hanno fatto il nostro capitalismo di territorio. Ti parrà forse strano, ma, partendo da posizioni e punti di osservazione diversi, tu, con il tuo “non ti riconosco più” che scava tra le macerie e i vuoti dell’impresa, Giuseppe Berta, con il suo osservare i vertici della grande impresa e le politiche pubbliche chiedendosi “che fine ha fatto il capitalismo italiano” ed io con i miei microcosmi, ci ritroviamo a cercare per capire, praticando una sociologia delle macerie. Giuseppe De Rita mi ha insegnato a raccontare il sommerso ascendente dei tardi anni ’60.
Sembra, nel piccolo, un’epopea da far west: contadini che, nella migrazione interna, si fanno operaio massa, operai specializzati che emergono dai sottoscala costruendo capannoni e disegnando con i sindaci aree industriali che si fanno distretto; cooperative di consumo e di lavoro che diventano grandi gruppi della distribuzione o della produzione. La piccola borghesia si fa ceto medio, come ebbe a rilevare Paolo Sylos Labini nella sua analisi. Dal mutualismo di prossimità basato sulla famiglia si va, rendendosi visibili, a prendere l’ascensore sociale di un welfare molto all’italiana, in un mix di famiglia, pensioni e statualità.
Si mette al lavoro la famiglia, si risparmia, si investe nella casa di proprietà, poi nel capannone e nei buoni postali, nelle banche locali, mettendo il vestito buono per partecipare alle assemblee dove si pesano azioni e Bot, ad alimentare torrenti e affluenti di composizione sociale incanalati nel fare società ed economia. Un fiume che ingrossa le fila del sindacato e delle rappresentanze di impresa: da Confindustria ai commercianti e all’artigianato, dando forma alla società di mezzo e riuscendo, sul fine secolo, a rendere visibile il torrente interrogante delle migrazioni con la figura del lavoratore immigrato portatore di diritti.
Questa voglia collettiva di rendersi ed essere visibili nel fare società e nel fare economia non c’è più. Per molti l’ascesa e la visibilità non hanno significato inclusione nel passaggio d’epoca della globalizzazione selettiva. Migliaia di imprese hanno chiuso, milioni di posti di lavoro sono andati distrutti, molti sono tornati nei sottoscala e nell’economia informale. Chi invece ha superato la selezione ragiona di industria 4.0. Ma basta interpellare le rappresentanze per capire il loro essere spaccate nell’accompagnare la competizione dei primi nel rincorrere la disperazione degli ultimi.
E’ una spaccatura che attraversa anche il sindacato, che firma accordi innovativi con le medie imprese globalizzate o i pochi grandi gruppi in materia di welfare aziendale e di formazione al lavoro “ibrido” fatto di manualità, informatica e robotica, mentre in basso si ritrova a svuotare con il cucchiaio il mare dei voucher e i Cobas di quelli che non vogliono diventare invisibili.
E che dire e che fare di fronte alla proposta di Bill Gates di tassare i robot? E per il mondo della cooperazione, ipervisibile in alto con la grande distribuzione e i grandi gruppi assicurativi e in basso con le false cooperative dei lavori ai margini della logistica o, peggio ancora, speculando sui profughi richiedenti asilo? E’ così che si è scomposto l’operaio massa e il volontario come sostituto del militante, come avevi avuto modo di scrivere.
L’invaso dei ceti medi si svuota, si è rotto il contratto non scritto che rendeva visibili le vite minuscole della piccola borghesia. Alcuni sono andati verso l’alto, a fare i manager, gli altri sono andati in basso pieni di incertezze per il destino dei figli a rischio neet. Le azioni delle banche e i Bot non sono più un rifugio, ammesso che non siano affondate le banche stesse con le loro assemblee di popolo. La borsa poi… Rimangono le case, quando non siano state svendute per pagare mutui non più onorabili. Così ci si “aerbirzza” , facendosi affittuari per studenti e turisti, ci si “uberizza” in lavoratori autonomi di terza generazione fatti di gig e lavoretti vari offerti dai padroni degli algoritmi, magari in conflitto con il lavoro autonomi di prima generazione. Oppure, ancora, ci si ritrova a lavorare per start up che organizzano il lavoro domestico a domicilio o la consegna di cibi pronti.
Se ricordi, ne avevamo colto l’asprezza e la discontinuità ragionando pochi anni fa dei forconi, che si prendevano il centro delle città. Tu mi facevi notare che si trattava di un “popolino” di ambulanti commercianti e artigiani ormai working poors, mentre io scrivevo della loro provenienza dalle campagne e non dalle fabbriche come segno di un territorio desertificato. Un deserto che sotto il sole dei flussi surriscalda un magma sociale difficile da toccare e trattare con le categorie del ‘900 senza scottarsi. A seconda del punto di eruzione è fatto di taxisti in deficit corporativo, da ambulanti che reclamano spazi, di espulsi dai robot, sino ai nuovi lavoratori servili nell’economia dei servizi e del capitalismo delle reti.
Ne deduco che lo scomporre e ricomporre questo magma sia questione politica quanto il tema nodale delle povertà. Così come mi pare urgente capire che cosa ne sia del lavoro e dei lavori nell’industria 4.0, del lavoro autonomo di prima generazione che si fa maker, di quello di seconda generazione che si fa partita IVA terziaria e di quello di terza generazione uberizzato e messo al lavoro nella dittatura dell’algoritmo.
Ed è con la rete, con la “società circolare”, di cui scrivo nel mio ultimo libro, con il suo essere contemporaneamente ruota della fortuna e ruota del criceto, che si confrontano i millennials nel loro esodo verso un altrove (a proposito, ma esiste ancora un altrove?) alla ricerca di opportunità, in quella che il grande Bauman definiva la lotta di classe per l’apparire. I pifferai della ruota della fortuna raccontano spesso delle start up che si quotano o sono acquistate dai padroni della rete, o di makers che rivitalizzano la fabbrica diffusa.
A noi tocca ragionare della ruota del criceto che mostra, in una stasi accelerata, tanti smanettoni al lavoro invisibili e sommersi, o precari a partita IVA a basso reddito, quando va bene. Anche la composizione dei migranti è cambiata. Oggi li definiamo profughi. Ed anche per loro, per gli scampati al Mediterraneo, è questione il rimanere sommersi ed invisibili, nella speranza di andare verso un altrove, di andare oltre un muro, per non essere rimpatriati (se di patria si può parlare). Al forum del sociale di Milano in corso in questi giorni mi sono ritrovato a raccontare una favola, andando con la memoria al 1991 quando, per la I conferenza nazionale sull’immigrazione (prima e ultima, a rilevare l’ignavia della politica) andai da Como a Trapani con Primo Moroni per portare sindaci e rappresentanze sociali e di migranti a confrontarsi sul tema, compreso un forum sulle religioni con Don Balletto e l’Istituto del mondo arabo di Parigi. Era quello un paese accogliente, sia sotto il profilo dei valori che sotto quello degli interessi, un paese in metamorfosi da paese emigrante a paese di immigrazione. Di lì a poco la sindrome da paura, prima con lo sbarco dei 27mila albanesi a Bari, poi con gli imprenditori politici della paura.
Paura che si è fatta rancore, trattenuto a stento dentro le fabbriche, i capannoni e le mura domestiche, dove la migrante era lavoratrice o badante, a bloccare la questione dei diritti di cittadinanza. Questione non risolvibile, né allora né oggi, per via giuslavoristica. Del resto la figura interrogante del profugo o del richiedente asilo è ostinatamente oggetto di scomposizione rancorosa tra migrante economico e profugo da guerra, svelando che l’esodo nasce da guerre, da mutamenti ambientali che producono dannati della terra. A fronte di questo salto d’epocale la paura ed il rancore si sono fatti razzismo nell’Europa dell’indifferenza che non coglie la sfida delle migrazioni come questione politica che interroga un modello di sviluppo che produce fame e guerra nel deserto.
Come vedi ho provato ad alzare lo sguardo verso il “non ti riconosco più”. Non voglio essere complice di questa economia e di questa politica e, visto che non trovo un altrove, mi ritiro a coltivare il mio orticello, ma penso che, proprio alzando lo sguardo nel riconoscere e riconoscersi partendo dalla sociologia delle macerie, induce l’urgenza di un lavoro sociale di lunga lena, pre politico, di ricostruzione, che vada oltre il nostro circoscritto coltivare l’orto volteriano. Un abbraccio. Aldo. bonomi@aaster.it