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Dovremmo tendere a congiungere il regno di noi umani sulla Terra al paradiso, nel senso originario del termine (pairi – intorno; daeza – muro, un calco dall’avestico). Il muro indica protezione e la passione e la cura possono generare la protezione necessaria a creare una vivibilità possibile per noi, nei luoghi della nostra vita.

Ascoltando con senso di sconcerto e terrore “L’urlo di Vaia”, degli artisti Vera Bonaventura e Roberto Mainardi, presentato in Arte Sella, sulle cinque ore del ventomoto che ha colpito tanta parte del nord-est ricondotte a un’opera sonora di cinque minuti, è stato possibile rivivere quanto accaduto in quei momenti terribili. Di particolare importanza sarebbe non trasformare solo in un rituale o in un ricordo, l’accaduto.

Le catastrofi possono diventare occasione di apprendimento e cambiamento, ma non è detto che ciò accada. Siamo anche particolarmente capaci di neutralizzare gli eventi e, come in una palude, fare in modo che la forza dell’abitudine si richiuda su noi stessi, e tutto continui come prima.

Oggi ogni cosa non è al posto giusto, anzi, sono molte le cose fuori posto, con conseguenze esistenziali, sociali ed economiche. Lo spopolamento dei territori montani ad esempio, ha effetti di impoverimento sociale grave. Così come ha conseguenze economiche evidenti.

Ciò è legato in buona misura all’industrializzazione della montagna in base a modelli impropri e all’insegna del “di più è meglio”. Ciò riguarda sia il turismo che l’agricoltura, con l’evidente difficoltà a investire in competenze evolute, in qualità e non in quantità, in distinzioni specifiche e competitive e non in standardizzazione.

Le logiche massimizzanti rispondono peraltro al vantaggio di pochi e quella concentrazione e specializzazione somiglia più a forme di colonizzazione in casa propria che al lavoro di giardinieri.

* Questo editoriale è apparso nei giorni scorsi sul Corriere del Trentino

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