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23 Marzo 2014
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Ali Rashid, quelle ombre sulla fine di Arafat. Uno scritto del novembre 2004

La cifra del pensiero e dell’azione di Arafat è stata la complessità e le improvvise svolte semplificatrici con cui elaborava inestricabili nodi strategici e le continue emergenze riprodotte giorno su giorno da una delle ferite più drammatiche e durature che nel Novecento un popolo abbia potuto subire. Pochi come lui hanno rispecchiato, con la vita e con la morte, le condizioni del suo popolo. Le sue stesse oscillazioni, tra silenzio e loquacità, punti alti e cadute, rigore e cedevolezza, lotta armata e lotta politica, impeto rivoluzionario e aspirazione alla fondazione di uno Stato, descrivono il carattere generale della questione palestinese come condizione cruciale – non l’ostacolo di cui parlano analisi e tesi di parte – per far fuoriuscire definitivamente l’intera regione dalla fase post-coloniale. La sua scomparsa non crea, ma porta in primo piano ed esalta, tutti i problemi che il movimento palestinese si trova ad affrontare, con le aggravanti di un’estenuante stasi trentennale, e nelle condizioni più aspre determinate dalle epocali trasformazioni dello scenario internazionale: un mondo monopolare in cui la guerra preventiva contro il ‘terrorismo’ ha sostituito quel tanto di vigore del diritto internazionale con il richiamo brutale alla legge del più forte.

In un gruppo dirigente palestinese ormai in gran parte radicato nei territori palestinesi occupati, e non in esilio nel mondo arabo, il dopo Arafat riapre il dibattito interrotto all’inizio degli anni novanta, e rimette al centro sfide dall’esito imprevedibile che investono contemporaneamente ipotesi teoriche e scelte politiche da compiere sotto l’occhio ostile e la pressione militare del nemico. Una riflessione, un confronto che si svolgono in un clima di paura in cui più di tre anni di prigionia di Arafat nel suo quartier generale, e la sua morte, gravata da ombre tuttora non dissolte, sono destinati a pesare seriamente sul grado di autonomia reale della prossima direzione politica nel momento in cui il popolo palestinese non è più disposto a rilasciare deleghe totali come quella conferita per anni ad Arafat come capo e come simbolo identitario.

Fra i nodi inediti e ineludibili che si presentano al popolo e al gruppo dirigente palestinesi, c’è,  in primo luogo, la fine dell’era dell’uomo forte che concentra in sé tutti i poteri, una esperienza irripetibile, non perché Abu Mazen, ritenuto dalla maggioranza il successore naturale del presidente Arafat, manchi di autorevolezza ma perché sono irripetibili le condizione storiche e politiche che hanno determinato l’affermazione della leadership di Arafat, e anche perché – ammesso che ai popoli che compongono il mosaico mediorientale si possano far corrispondere delle vere e definite nazionalità –  nessuno oggi può ignorare l’esistenza dell’identità nazionale dell’antico popolo palestinese. È sotto la guida di Arafat e grazie alla lunga e aspra lotta del popolo palestinese che si è realizzata e consolidata l’affermazione della nazione palestinese senza della quale è impossibile pensare un futuro stabile e pacificato del Medio Oriente. Anche se non bisogna dimenticare che le nazionalità del Medio Oriente non sono il risultato di un processo di emancipazione e di autodeterminazione, ma l’effetto di un disegno esterno, imposto dalle potenze colonialiste e poi reso immodificabile dalla guerra fredda, che ha impedito fino a oggi un processo reale e diffuso di democratizzazione e di integrazione economica, sociale e politica. Il sogno delle generazione di rivoluzionari palestinesi e arabi dell’epoca precedente ad Arafat, era di sconvolgere l’assetto artificiale imposto dalle potenze colonialiste, che disegnarono nazioni e Stati, compreso lo Stato di Israele, secondo le linee dell’equilibrio mondiale. In questo progetto, per quella generazione, l’unità del mondo arabo era la condizione indispensabile per la liberazione della Palestina. Furono Arafat e Al Fatah che mobilitarono i palestinesi per dare inizio alla lotta per la liberazione della loro terra senza attendere un’improbabile unità del mondo arabo, e considerarono, al contrario, la lotta dei palestinesi come condizione liberatrice delle energie indispensabili per una integrazione tra i paesi arabi, che facesse emergere le contraddizioni dei regimi arabiantidemocratici, responsabili, insieme a Israele, sia della tragedia della Palestina che dell’arretratezza e divisione del loro mondo. È una questione quanto mai aperta oggi, quando la endemica fragilità geopolitica del mondo arabo viene scossa duramente dalla ‘guerra permanente’ dell’Amministrazione americana, come dimostra la sua azione volta a balcanizzare l’Iraq in tre realtà separate, e a minacciare Siria, Arabia Saudita e Iran della stessa sorte.

Il ritardo del processo di democratizzazione e di integrazione tra i paesi arabi ha fatto sì che i movimenti di matrice religiosa, che rivendicano l’affermazione della nazione islamica che non riconosce né confini né Stati, appaiano come unico punto di riferimento per uscire dal dominio militare americano e dalla sua egemonia politica e culturale.

Oggi questa sfida è aperta anche in Palestina. La repressione israeliana, guidata politicamente e ispirata culturalmente dalla estrema destra politica e integralista, l’accentuarsi della natura religiosa dello Stato di Israele, l’ideologia millenaristica che muove l’occupazione e l’espansione delle colonie, da una lato, la fragilità delle istituzioni democratiche palestinesi e la non trasparenza amministrativa della finanza pubblica da parte dell’Autorità nazionale palestinese, dall’altro, sono tutti fattori che hanno innescato e sostenuto la crescita del movimento islamico palestinese, che comunque mantiene le sue peculiari caratteristiche di movimento contro l’occupazione israeliana. Un movimento fino a pochi anni fa marginale, oggi si è radicato nel territorio e secondo gli ultimi sondaggi gode del sostegno di quasi il 30% della popolazione.

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Nell’evoluzione della situazione avranno certamente un peso le riforme democratiche che l’Autorità nazionale palestinese dovrà necessariamente avviare, ma nell’immediato conteranno in misura determinante l’atteggiamento del governo israeliano verso il processo di pace, il ritiro da tutti i territori occupati – e non solo dalla Striscia di Gaza – e, più in prospettiva, il tipo di soluzione della questione dei rifugiati e i diritti di cittadinanza che Israele riserva ai suoi cittadini di religione non ebraica.

Abu Mazen sta sviluppando un deciso impegno per ottenere una tregua da Hamas e la sospensione di qualsiasi attività militare, ma deve essere chiaro che il successo di questo tentativo dipende in misura decisiva dalla scelta dell’Amministrazione americana di costringere Israele a fermare la sua spietata escalation militare contro il popolo palestinese e a far cessare i soprusi e le angherie quotidiane alle quali sono sottoposti i palestinesi. In teoria, è ancora in vigore il piano internazionale della Road Map per una soluzione politica del conflitto e per la creazione di un Stato palestinese. La morte del presidente Arafat toglie a Sharon e a Bush il pretesto, a lungo propagandisticamente coltivato, per non trattare con i palestinesi e stracciare il percorso delineato dal Quartetto (Usa, Russia, Unione europea e Onu). Nelle settimane scorse, come ultimo episodio della sua direzione della diplomazia americana prima della successione di Condoleeza Rice, il segretario di Stato americano Colin Powell si è recato nella regione per la Conferenza sull’Iraq, e, pare, per l’avvio delle trattative. È possibile riprendere il cammino dal punto in cui fu interrotto. Tutte le parti in causa sanno perfettamente le soglie che segnano il massimo negoziabile al di sotto delle quali nessun palestinese può andare, le stesse che furono delineate a Taba e Sharm-el-Sheik, dopo il fallimento di Camp David.

Vi è tuttavia una sfida ravvicinata e incombente, e riguarda la possibilità di una rapida legittimazione democratica attraverso il voto della nuova leadership. Questo processo deve necessariamente spingere la comunità internazionale e l’Amministrazione americana a riconsiderare la priorità, che non può essere la guerra al terrorismo – che ha fornito a Sharon la motivazione per continuare l’occupazione – ma diventa la creazione delle condizioni ottimali perché possono essere svolte elezioni in condizioni di trasparenza e libertà. Non è cosa da poco, perché la realizzazione di queste garanzie implica una pressione internazionale per il ritiro israeliano dai centri abitati e la cessazione dell’assedio delle città palestinesi, che consentano ai candidati di svolgere la loro  campagna elettorale incondizioni di libertà.

L’estensione giuridica e territoriale del diritto di voto dei palestinesi nei territori occupati, e la loro libera partecipazione, sia a Gerusalemme che nel resto dei Territori, ridisegna la mappa e i confini dei territori contesi per il futuro dello Stato palestinese, e fanno cadere, almeno sul piano politico, tutte le tesi di Sharon e della destra israeliana rispetto al futuro di Gerusalemme e dei territori che il Muro vorrebbe includere nell0 Stato di Israele.

Libertà, trasparenza e partecipazione di massa alle elezioni sono condizioni indispensabili perché la scelta popolare possa esprimere non un potere concentrato e personalistico, ma un leader legittimato a governare nel rispetto delle regole e delle istituzioni democratiche, che avrà l’obbligo di sottoporre tutti gli accordi futuri all’approvazione di un Parlamento democraticamente eletto. Questa è la condizione perché non ci sia il potere forte, ma isolato, che potrebbe essere esposto alla corruzione o alla coazione ad accettare le cosiddette ‘offerte generose’ del tipo di quelle di Barak, o a sottoscrivere impegni senza sottoporli all’approvazione di una rappresentanza liberamente eletta. E, forse, questa è una garanzia perché il quartiere generale non possa essere trasformato ancora una volta nel carcere riservato all’uomo ‘cattivo’ che osa non obbedire.

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Dopo la riaffermazione elettorale dei neo-cons negli Stati Uniti, il dopo Arafat conferma il piccolo popolo palestinese nel cuore delle grandi e aspre questioni mondiali. La Palestina ritorna a essere, come è stata per tutta la sua storia, lo specchio del mondo e subisce nel bene e nel male le sue trasformazioni, in modo particolare oggi dopo l’incrudirsi del conflitto tra le correnti fondamentaliste cristiane e giudaiche da una parte, e  islamiche dall’altra, che hanno in Palestina e nella regione l’epicentro della loro collisione. Di nuovo la Palestina e il suo popolo si trovano, senza esserne stati la fonte primaria, al centro di un conflitto che incendia tutto il mondo senza, per questo, guadagnare la solidarietà e il sostegno delle forze che dovunque si oppongono a questa degenerazione. In  questo scenario internazionale e ideologico la collocazione che la nuova leadership intende darsi diventa quindi cruciale, e decisive saranno le scelte circa il metodo di lotta che intende adottare per sfuggire alla trappola mortale che l’uso della violenza fa scattare a danno di tutti i contendenti

Se il sogno di costruire in Palestina uno Stato democratico senza discriminazioni razziali e religiose – più che mai attuale oggi come risposta allo scontro tra civiltà e religioni cui lavorano potenti forze conservatrici -, che aveva animato la generazione e l’esperienza giovanile di Arafat appare oggi allontanarsi, diventa allora fondamentale da parte dei palestinesi affrontare l’impresa ardua di togliere alla destra israeliana e a quella americana l’alibi che è stato posto alla radice della guerra preventiva e permanente.  E compiere senza esitazione, e con il consenso dei più, la scelta della nonviolenza come forma di lotta per l’affermazione del diritto. Una scelta che è segno di forza e non di cedimento per chi è convinto delle proprie ragioni, e che permette al nostro popolo di sfuggire al declino e all’annichilimento che la guerra produce in chi la fa e in chi la subisce. È un compito gigantesco, e che può persino apparire ingeneroso addossare a chi della violenza è vittima da decenni, a chi nel rapporto di forza appare tanto inferiore, ma è l’unica scelta che potrebbe cooperare a liberare vasti settori della stessa società israeliana dal terribile destino di imbarbarimento e di morte che sembra ineluttabile.

Uno dei primi compiti della nuova leadership palestinese deve essere proprio quello di sottrarre il suo popolo a questo stillicidio che mette a rischio mortale un popolo intero, un territorio, una storia millenaria, una antica cultura di convivenza che andrebbe assunta come patrimonio universale di tutti coloro che si oppongono alla rovinosa logica della guerra permanente e preventiva. Una logica che Israele – nessuno lo dimentichi – ha messo in pratica contro il popolo palestinese mezzo secolo prima che diventasse la strategia mondiale dell’Amministrazione di Bush.

Per quante ridotte siano le nostre forze, non ci è dato di mancare alla responsabilità di fare la nostra parte nel rispondere con le leggi dello Stato democratico e con la qualità dell’esercizio della sua sovranità alle questioni brucianti poste dal movimento islamico e dalle deviazioni terroristiche che colpiscono la popolazione inerme, garantendo pieni diritti a tutti i nostri cittadini, facendo valere il principio della maggioranza che governa e assume le sue responsabilità. É impensabile  che ogni fazione politica abbia la sua politica di sicurezza, di difesa o di guerra, con la conseguenza inevitabile di produrre il caos totale e di generare un incurabile clima di di insicurezza. Sono queste le ragioni di generale interesse che rendono auspicabile una partecipazione di Hamas alle elezioni con propri canditati e programmi, rispondendo a un dovere di responsabilità comune – di cui nelle ultime settimane si son visti segni confortanti – che costituisce il passaggio indispensabile per dare cittadinanza piena a una cultura religiosa islamica e alle organizzazioni che la incarnano nella società, che solo per questa via troverebbero ruolo e legittimazione nella vita politica, nelle istituzioni e nelle regole dello Stato laico e democratico. Per tutti e senza  eccezioni, e in modo particolare in Terra Santa, la questione religiosa è ormai ineludibile. E solo il successo di un’ipotesi di costruzione laica e democratica può avere un effetto positivo per arginare il pericolo del risorgere e trionfare di una idea teocratica e regressiva dello Stato autoritario – che l’occupazione israeliana e la guerra americana alimentano ogni giorno – e per trasmettere alla vita politica l’ispirazione di giustizia e d’amore che è il senso più alto della religiosità.

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