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Un uomo, il suo tempo. In ricordo dell’amico Alberto Tridente ad un anno dalla scomparsa

Un uomo, il suo tempo

di Michele Nardelli

"Pronto?".

"Ciao, Silvia".

"Oh, Michele…" risponde Silvia con quel suo timbro di voce che non nasconde il piacere di sentirmi.

"Come va?".

"Insomma… sai, ci ha lasciati Alberto Tridente".

Un attimo di silenzio.

"Chi, scusa?"

"Alberto Tridente" gli rispondo quasi stupito … "Ma come, sei di Torino e non sai chi è Alberto?"

E’ un po’ imbarazzata, Silvia. Persona cara e sensibile, quasi a non volermi deludere…  e in quello stesso istante mi rendo conto di quanto siano vacue le nostre esistenze.

§§§

Mentre la politica italiana conosce pagine non certo gloriose, sfoglio il libro/biografia di Alberto Tridente che ho avuto il privilegio di iniziare a leggere nei fogli dattiloscritti che un giorno mi consegnò, quasi timidamente, nella ritrosia di chi aveva da sempre immaginato l’impegno politico come qualcosa di estraneo al parlare di sé o al proprio tornaconto personale.

Tanto che le ultime parole di "Dalla parte dei diritti. Settanta anni di lotta" Alberto le ha proprio dedicate al valore della politica come impegno personale e collettivo. "Le carriere sono possibili e lecite, – scriveva Alberto – opportunità che non vanno ricercate come fine a se stesse, come del resto l’ascesa sociale spesso offerta dalle circostanze, senza per ciò dover vendere la propria anima a chicchessia. Basta fare il proprio dovere ed essere disponibili a servire ideali".

"Termina qui la storia, ma non la corsa…" scriveva poco sopra, ma si sbagliava, perché anche la corsa era praticamente alla fine.  La storia e la corsa erano così intrecciate fra loro che quando ci incontravamo negli ultimi anni, l’urgenza di cambiare i paradigmi su cui insistevo come passaggio ineludibile per una sinistra capace di fare i conti e scollinare il Novecento, quasi lo infastidiva.

Perché Alberto era il Novecento. Leggere la sua biografia è come ripercorrere le pagine di un secolo fatto di migrazioni verso la modernità, da un sud dove la vita appariva senza speranza; di scuole dove per la prima volta avvertivi che non tutti sono uguali; di lavoro che pur nella sua durezza dava emancipazione e coscienza, dignità e identità.

Il racconto della sua infanzia negli anni ‘40 è l’affresco di un paese dove il vivere era un mestiere difficile, del quale oggi si è smarrita la coscienza collettiva. Non per la guerra, che pure segnerà lo sguardo del giovane "ragazzo di bottega" che diventa operaio, ma perché la povertà era la condizione normale. Normale era rattoppare un vestito che prima era stato del fratello maggiore, così come le scarpe alle quali dovevi adattare i tuoi piedi. Normale era la "spigolatura" per raccogliere ciò che la mietitura o il raccolto lasciavano nei campi. Normale era lo spezzare il pane a piccoli pezzettini perfarlo durare di più o la gioia per una caramella colorata di non si sa bene quale schifezza. Normale era fare il bagno una volta la settimana, in un stanza da bagno che in casa non c’era. Non sono pagine di Giovanni Verga o di Emile Zola, era l’Italia a cavallo fra gli anni quaranta e cinquanta.

Vi propongo queste immagini perché penso che non si possa capire la figura di Alberto Tridente a prescindere dall’affresco dell’Italia negli anni in cui prende forma la sua coscienza civile, sociale e politica. Qui, negli anni, Alberto scopre l’agire collettivo. Un agire che prende le traiettorie di una generazione, nel vivo dei processi sociali, culturali e politici intimamente connessi con i luoghi. Perché Torino non era una città qualsiasi e lì persino gli operai, nel loro carattere austero, prendevano un non so che di aristocratico.

Così accade che un giovane democristiano, nel rigore dell’impegno sociale, diventi parte di un sindacalismo che si scopre radicale senza volerlo essere. Le storie personali si sovrappongono nei miei pensieri, fra Torino, Milano e Trento, a testimoniare di come Alberto fosse figlio di quegli anni frettolosamente liquidati come di piombo. Alberto, parafrasando Hannah Arendt, aveva la rara qualità di essere "presente al proprio tempo".

Non era solo lo stare dalla parte dei diritti, ad accomunare persone come Alberto Tridente, Giuseppe Mattei, Bruno Morandi… Era l’amore per la vita. Certo, il loroimpegno civile era un tutt’uno con la loro esistenza, fin quasi a discapito degli affetti e di ciò che ti riporta alle responsabilità non solo verso il mondo ma anche verso i singoli. E se qualche segno di rimpianto si può cogliere nella biografia di Alberto è proprio quello di aver trascurato – nel fiume in piena di vite straordinarie – gli affetti più cari di chi non poteva seguirti.

L’amore per la vita, non è una banalità. Mi guardo attorno e vedo soprattutto rancore. Dita puntate che ti chiedono da che parte stai, in nome di coerenze che diventano sentenze. Amare la vita è stare nelle contraddizioni senza volerle tagliare, come le teste, in nome di fedeltà chiesastiche che non ammettono tradimenti.

§§§

Ho conosciuto Alberto Tridente alla fine degli anni ’70, quando ancora era nel sindacato. Venne a Trento per la Federazione Lavoratori Metalmeccanici, il sindacato unitario che qui era nato con lo SMUT (Sindacato metalmeccanico unitario trentino), anticipando il processo unitario che negli anni successivi avrebbe preso corpo in Italia grazie ad una straordinaria stagione di lotte operaie. La FLM era una vera e propria fucina di quadri ed allora il passaggio dalla dimensione sindacale a quella politica era pressoché automatico. Lì c’erano dunque gran parte dei nostri compagni, giovani che ora hanno i capelli bianchi e con i quali condividevamo non solo l’impegno sociale
e politico, ma appunto l’amore per la vita, le cose buone della tavola, la montagna. E quando c’era di mezzo la montagna, Alberto non si tirava mai indietro.

Poi ci ritrovammo a Roma. Alberto era andato via dal sindacato, laddove la pensione coincise con la fine di un ciclo e con il dissenso. Noi trentini, demoproletari vicini al suo percorso culturale e politico, proponemmo a DP di valorizzarne l’esperienza candidandolo al Parlamento Europeo. Erano le elezioni del 1984, segnate dalla morte a Padova di Enrico Berlinguer. Le immagini di quel suo ultimo comizio, ancora oggi molto vive nella mia generazione, entrarono nella coscienza di milioni di persone, ci parlavano di come la politica può essere spirito di servizio fino all’ultimo istante. Il Pci vinse le elezioni, noi portammo a casa un magro 1,4% e Alberto, che avrebbe dovuto essere il secondo deputato, rimase fuori.

Proprio in quei mesi andai a lavorare a Roma, nella segreteria nazionale di DP, e le nostre traiettorie s’incrociarono. Nel frattempo l’unico eletto al Parlamento Europeo per Democrazia Proletaria, l’amico Emilio Molinari, fu costretto a dimettersi per i suoi malanni di cuore e Alberto gli subentrò.

Qui potremmo aprire una piccola grande parentesi. Il fatto che un operaio, autodidatta, diventi un dirigente sindacale e poi un membro della più prestigiosa istituzione europea, non è cosa da nulla. Ci racconta qualcosa, invece. Ad esempio, di una straordinaria stagione egualitaria che oggi sembra quasi fantascienza.

Nel proporre Alberto Tridente al Parlamento Europeo avevamo visto giusto. In quegli anni lo straordinario patrimonio di relazioni che Alberto aveva costruito soprattutto in America Latina divenne una grande opportunità politica. Ricordo, fra le tante immagini, la presentazione di quell’allora sconosciuto esponente del sindacato metallurgico brasiliano, Ignacio Da Silva, chiamato Lula, nella nostra sede romana di via Farini,candidato del PT alla presidenza del Brasile. Erano fraterni amici con Alberto e rimarranno tali anche quando, più tardi, quell’operaio divenne presidente del più grande paese latino-americano. Vite parallele.

§§§

E’ il 1994. Seguendo ognuno tragitti non scontati nel cercare di essere "presenti al nostro tempo", mentre tutto era cambiato intorno a noi, Alberto mi chiama e mi propone di andare con lui in Messico per la campagna elettorale di Cuatemoc Cardenas. La mia valigia, allora come oggi, era sempre pronta e così ebbe inizio un viaggio che, a guardar bene, non si è mai concluso.

Il primo gennaio di quello stesso anno, in una linda cittadina nella foresta Lacandona – mentre a due passi nella nostra vecchia Europa riapparivano i campi di concentramento e ci si lacerava orrendamente in una guerra mai sul serio compresa – un popolo fragile era insorto, non per rivendicare nuovi confini ma per la dignità e l’autogoverno. Eravamo sul pezzo.

Quando un anno fa Alberto se ne è andato, lo ho ricordato nel mio diario non come l’operaio che diventa parlamentare europeo, ma come uno straordinario tessitore di relazioni. Perché questo era in primis Alberto, un grande costruttore di reti di amicizie.

Conobbi in quella circostanza Carlos e Pano, diventammo amici grazie a quella magia che Alberto ci ha insegnato a riconoscere. Ad esempio, nel saperci incontrare dopo mesi o anni e avere la sensazione di esserci lasciati il giorno prima, come se il nostro pensiero e le nostre parole fossero in comunicazione nonostante internet, proprio per la magia che l’essere presenti al proprio tempo ci regala.

Ho negli occhi e nel cuore quel viaggio. Le immagini lungo le strade sterrate della campagna elettorale, la speranza che ancora circondava il partito di Cuatemoc destinato, come in altre latitudini, ad interrogarsi o ad estinguersi, l’emozione per la maestosità del Popocatepetl, la magica bellezza e i colori di Tepoztlan, la cucina divina del maestro Pano, la festosa accoglienza per Gabriella carica di farina di mais nel paese del mais (e di vino), il nostro gioco attorno alla "Fattoria degli animali", l’amaro e ironico racconto di Orwell sul Novecento.

§§§

Ecco, l’immagine più bella che posso proporre di Alberto è proprio quella del tessitore di relazioni. Dopo quel viaggio con Alberto abbiamo fatto tanti progetti, avrei voluto seguirlo nei suoi viaggi e averlo con me nei miei, attraverso le strade dissestate di quell’altra Europa che negli anni successivi decisi di vivere da vicino, imparando a mia volta quel mestiere di costruire relazioni che Alberto mi aveva insegnato.

Invece non abbiamo più avuto modo di farlo, presi ognuno dalle proprie cose. Ci incontravamo, certo, ma era come se il tempo non fosse più lo stesso. Quando a Torino presentai il libro "Darsi il tempo", la sensazione che il pulsare delle nostre vite aveva preso a procedere su binari diversi, quasi mi angosciò.

Ci rivedemmo a Trento, per il progetto "Cento città" e successivamente per l’incontro delle associazioni di amicizia con il Brasile. Fu l’ultima volta. La dedica che Alberto scrisse nel farmi dono della sua biografia recitava così: "A Michele, fraterno amico e compagno di tanta parte del Novecento".

Mentre scrivo queste parole, avverto una forte emozione che non sono sicuro di riuscire a trasmettere. Alberto Tridente era il Novecento. Grazie, Alberto, per l’incontro delle nostre vite.

§§§

Se equivocó la paloma, se equivocaba

por ir al norte fue al sur

creyó que el trigo era agua

creyó que el mar era el cielo

que la noche la mañana…

que las estrellas rocío

que la calor la nevada

que tu falda era tu blusa

que tu corazón su casa…

ella se durmió en la orilla

tù, en la cumbre de una rama.

(Raphael Alberti)

Si sbagliò la colomba, si sbagliava

per andare verso nord andò a sud

credette che il grano fosse l’acqua

credette che il mare fosse il cielo

che la notte il mattino…

che le stelle rugiada

che il caldo la nevicata

che la sua gonna fosse la sua blusa

che il tuo cuore la sua casa…

ella s’addormentò sulla spiaggia

tu, nella cima d’un ramoscello.

(Rafael Alberti)