L’ingorgo delle crisi
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di Michele Nardelli
Ormai quasi nessuno nega che quanto sta accadendo attorno a noi sia l’esito della crisi climatica generata dall’aumento delle emissioni di anidride carbonica e di altri gas climalteranti nell’atmosfera. Crisi che, peraltro, si intreccia con altre, generando interazioni di natura pandemica e gravi rotture di equilibri ecosistemici. Ciò nonostante ogni evento estremo ci coglie di sorpresa, nel territorio dell’imprevedibilità. E si insiste su questa parola, imprevedibilità, come se questa in qualche modo attenuasse le nostre responsabilità.
Certo, nessuno può sapere in anticipo il minuto, l’ora e il giorno in cui una massa di ghiaccio e roccia, fango e detriti, si stacca dalla montagna trascinando con sé e devastando ogni cosa e persona che incontra sul suo cammino. Eppure dovremmo imparare che gli eventi estremi avranno sempre più caratteristiche inedite e una frequenza esponenziale che – come abbiamo scritto – ci ricorda il monito della ninfea.
In realtà tutti sappiamo, oppure scegliamo di non sapere. In un caso o nell’altro facciamo di tutto per non cambiare. Sappiamo ad esempio che ci siamo spinti oltre il limite, tanto che gli effetti della crisi climatica – dalla fusione dei ghiacciai montani e polari alla desertificazione, dall’innalzamento dei mari allo scioglimento del permafrost, dalla perdita di biodiversità alla nascita di nuove patologie correlate o all’invasione delle locuste – sono considerati, almeno nel corso del XXI secolo, sostanzialmente irreversibili. Sappiamo anche che se nel 2030 la temperatura del pianeta non dovesse rimanere entro l’aumento di 1,5 gradi centigradi (ma stiamo andando rapidamente verso un aumento di 2 gradi) le conseguenze saranno oltremodo devastanti, “inimmaginabili“ scrive l’IPCC nel 6° rapporto sul clima.
Allo stesso modo dovrebbe essere piuttosto evidente che tutto questo ha a che fare non solo con lo stile di vita di quella parte del pianeta la cui impronta ecologica è insostenibile ma anche con un modello di sviluppo che consuma molto di più di quello che gli ecosistemi sono in grado di produrre. Di questo aspetto, che investe le scelte politiche di fondo, se ne parla un po’ meno o non se ne parla affatto.
Si preferisce piuttosto derubricare le crisi ad emergenze, come se ciascuno di questi eventi fosse riconducibile al caso, all’imponderabile o all’eterna lotta fra uomo e natura. Così l’emergenza diviene il terreno preferito dei governatori vestiti per l’occasione da montanari o da protezione civile, da militari o da operatori sanitari.
Certo, si dice che bisogna fare qualcosa per attenuare gli effetti delle crisi (l’hanno chiamata resilienza), ma le soluzioni indicate sono tutte a valle del problema, relative cioè a come attrezzarsi per non mettere in discussione il sistema che ha generato tutto questo, ovvero il modello economico e sociale che domina il mondo intero e fondato sulla crescita senza limiti.
Perché se non s’inverte il rilascio di anidride carbonica nell’atmosfera la situazione è destinata a peggiorare di anno in anno e – lo ripeto – in maniera esponenziale. L’unica strada percorribile è la riduzione del fabbisogno energetico: in caso contrario in discussione non saranno i privilegi di una parte degli abitanti del pianeta ma la nostra specie.
Siccità, fiumi ridotti a rigagnoli, proliferazione delle cavallette, surriscaldamento dei mari, eventi atmosferici catastrofici sono diventati endemici e oggi già sappiamo che l’anno che verrà sarà peggiore di quello precedente.
Tutto questo per dire che l’imprevedibilità è una foglia di fico, dietro alla quale si nasconde la non volontà di cambiare.
Fa cascare le braccia pensare che il problema siano le bandierine rosse per regolare l’accesso alla montagna, quand’anche è innegabile che un problema di rapporto responsabile con la montagna si pone. L’antropizzazione ha semmai a che fare con il trasferimento del modello urbano sulla montagna, la continua crescita delle seconde case, l’industria dello sci sempre più esigente e la mortificazione dell’economia della montagna.
Come non capire che, ad esempio, con la fine annunciata da tempo del ghiacciaio della Marmolada, tutto l’ecosistema delle valli limitrofe (e per il Trentino le valli di Fassa, Fiemme e Cembra) sarà destinato a modificarsi? Che se non ci sarà più acqua per il lago artificiale di Fedaia, figuriamoci per il bacino in costruzione di 120 mila metri cubi sopra Canazei per l’innevamento artificiale… Non c’è più sordo di chi non vuole sentire.
Così, fra qualche mese, anche la tragedia che ha investito il cuore delle Dolomiti verrà sfumata, in seguito se ne parlerà nelle commemorazioni e così la vita continuerà a scorrere nella sua agognata normalità, almeno fino a quando una nuova “emergenza“ non s’imporrà all’attenzione di un’opinione pubblica sempre più avvezza a volgere il proprio sguardo altrove. Nel frattempo continuerà il delirio della realizzazione dei bacini in quota per l’innevamento artificiale, si predisporranno le nuove strutture per le Olimpiadi di Milano-Cortina del 2026, i pascoli diverranno preda degli allevamenti intensivi delle pianure, le cosiddette mafie dei pascoli impoverendo oltremodo la montagna, i boschi saranno alla mercé del cambiamento climatico e rinsecchiti dalla proliferazione del bostrico, tanto che in Trentino e in Provincia di Belluno si prevede che la quantità di piante colpita sarà analoga a quella dovuta al ciclone Vaia.
No, non c’è una specifica responsabilità per la tragedia che ha spazzato via e devastato le vite di tante persone in quel che rimane del ghiacciaio della Regina delle Dolomiti. C’è invece la colpa di una comunità che, ai diversi livelli, è ancora ben lontana dal far propria la cultura del limite.