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(7 novembre 2016) Mentre leggo l’editoriale di Simone Casalini sul Corriere del Trentino di domenica (in allegato), a conclusione della pregevole inchiesta che quel giornale ha realizzato attraverso i profondi cambiamenti che segnano la vita sociale e culturale delle aree urbane della città di Trento, avverto una profonda analogia con ciò che scrive Marco Revelli nel suo viaggio dentro luoghi simbolici della trasformazione post fordista di questo paese1.
L’inchiesta del Corriere (articolata in trenta puntate) si è conclusa al quartiere delle Albere, lo spazio urbano nato sulle macerie della vecchia Michelin, croce e delizia di un progetto urbanistico che ha fatto della cosiddetta edilizia contrattata il suo mantra.
Nella mia testa si snoda il parallelo fra i luoghi della capitale italiana dell’auto, le cui fabbriche scandivano come un gigantesco cuore il pulsare della vita della Torino metallurgica e il principale insediamento operaio di una piccola città come Trento che da solo occupava più di millecinquecento persone (ma forse sarebbe più giusto parlare di famiglie, considerato che il “sistema Michelin“ rappresentava la versione paternalistica e autoritaria del modello olivettiano).
Le tracce di quella storia oggi sono quasi del tutto cancellate, se non nella memoria di qualche vecchio o nella tragica eredità dei sottosuoli, a Torino come a Trento. Insomma, seppellite. Nemmeno una via si è avuto il coraggio di dedicare, in questa nostra città dove le famiglie “giuste“ ancora contano più di quanto si possa immaginare, a chi come Giuseppe Mattei di quella vicenda umana fu forse il principale protagonista.
Non c’è in me alcun senso di nostalgia, anche se il rischio di uno sguardo se non indulgente almeno romantico verso il passato mi è ben chiaro. E che forse un po’ riecheggia anche nelle pagine torinesi di Marco Revelli. Perché non è il “come eravamo“ l’oggetto della riflessione, ma come passato, presente e (immaginazione del) futuro possono concorrere alla profondità del nostro sguardo. Nell’analisi come nella progettualità.
In questo intento, tanto una pagina di buon giornalismo come il contributo di un intellettuale che s’interroga sul proprio tempo, possono aiutarci a colmare l’assenza della politica prima ancora che delle istituzioni, mondi distratti dall’ultimo miglio o dalla mediocre gestione dell’esistente, quando non da una meschina rincorsa del consenso.
Non ci sono le risorse, si dice. E non ci si interroga se questo abbia a che fare con le politiche neo centralistiche nella dislocazione di risorse e poteri (quel che sta avvenendo in Italia, a prescindere dalla colorazione politica dello schieramento al governo, e ahimè anche nel nostro Trentino). Oppure con il vuoto di fantasia e di capacità di sperimentazione della politica. Perché – sempre per rimanere al quartiere delle Albere – l’edilizia contrattata non era l’unica strada possibile.
La fantasia (e un po’ di coraggio) avrebbe potuto portarci ad immaginare su quella porzione tanto importante di città la mobilitazione e la responsabilizzazione di un’intera comunità, quale sarebbe potuta avvenire attraverso ad esempio la creazione allo scopo dei Buoni Ordinari del Comune o l’attivazione di una “finanza di territorio“ (mi riferisco al sistema delle Casse Rurali, che per salvarsi dalle dinamiche del mercato globale altra strada non hanno se non quella di ancorarsi al territorio e alla sua valorizzazione; all’ITAS, che oltre a sponsorizzare la squadra di volley potrebbe riscoprire le proprie origini; a PensPlan e Laborfonds che invece di scommettere sul mercato globale dovrebbero almeno in parte pensarsi come strumento di generazione territoriale…) se solo fosse stata più attenta nel sostenere le ragioni comunitarie in quel delicato passaggio della vita della città.
Un investimento della comunità che avrebbe potuto dare un significato molto diverso alla realizzazione del nuovo quartiere cittadino del quale il Muse poteva rappresentare e ancora rappresenta la quintessenza. Sarebbe stato davvero tutto diverso ed oggi quegli stessi appartamenti vivrebbero dell’operosità delle famiglie e delle grida dei bambini, invece del silenzio assordante del vuoto.
Come dicevo, è nel volgere lo sguardo al futuro facendo tesoro del passato (per quanto recente), che dovremmo interrogarci su come venirne a capo, considerando che questa “croce“ pesa sull’immagine di una comunità che pure ha saputo in passato investire sulla conoscenza, nonostante fossero in molti a dire che di cultura non si sarebbe potuto vivere.
Venirne a capo significa certamente investire sugli spazi nei dintorni, come sta avvenendo con la localizzazione della Biblioteca universitaria o con l’appropriarsi dell’area verde come di uno spazio dell’intera città; facilitando la nascita di esperienze come “Impact Hub“, generatrici di idee e di lavoro; ricongiungendo quel quartiere al cuore della città attraverso la trasformazione di via Madruzzo in una colorata strada dei fiori. Potrebbe anche voler dire il riprendere in mano la questione di quel patrimonio abitativo delle Albere, magari rinegoziando con la proprietà una partita che non può rimanere lì in attesa di migliori condizioni di mercato.
Parlo del quartiere delle Albere, ma in realtà penso a quel luogo come paradigma di un presente inchiodato fra il non più e il non ancora, che vive alla giornata e ha smesso di porsi domande sul senso del vivere collettivo, che non sa ascoltare quel che pure di nuovo emerge nel fermento delle idee e che pensa alla pianificazione urbanistica – per dirla con Revelli – come ad “un tavolo di negoziazione lenticolare con stakeholders dai denti aguzzi‘ più che ad un disegno unitario di futuro.
In questo passaggio tanto le aree metropolitane come le piccole città soffrono dello stesso problema, quel vuoto politico che subito qualcuno trova il modo di riempire insieme alle proprie tasche e che richiede – come ci ricorda Simone Casalini – prima ancora che di capacità immaginifica di leggere ciò che avviene nei processi sociali.
1Marco Revelli, Non ti riconosco. Einaudi, 2016
1 Comment
Poiché non possiamo richiamare in vita Bruno Kessler, uomo dalle visioni strategiche, come richiesto di recente (Kessler dove sei?) con un simpatico cartello dagli studenti, preoccupati per il futuro loro e dell’Ateneo, dobbiamo tutti insieme compiere ogni possibile sforzo necessario affinché l’operazione del quartiere delle Albere vada a buon fine. Non è solo con il senno di poi che le carenze dell’intero progetto sono state evidenziate: le critiche non mancarono sin dall’inizio, come ha documentato Questotrentino, e lo stesso progettista Renzo Piano, che sarà presente il prossimo 19 novembre all’inaugurazione della biblioteca d’Ateneo, mise le mani avanti rimarcando come fossero venute meno due condizioni essenziali alla buona riuscita del progetto (lo spostamento dello stadio e l’interramento della ferrovia). Simone Casalini e Michele Nardelli, con i loro interventi hanno messo in luce annessi e connessi della vicenda; ai cittadini spetta sollecitare i responsabili politici a prendere decisioni ponderate onde evitare il possibile declino dell’intera area. Poiché si sta imponendo nei fatti l’intuizione originaria, quella di realizzare un campus universitario urbano, è bene che ciò avvenga creando un unicum fra il Mulino Vittoria, l’ex CTE, le barchesse delle Albere e l’area ex Michelin. Con la nuova collocazione della biblioteca d’ateneo l’intero quartiere disegnato da Renzo Piano si presterebbe con qualche aggiustamento ad ospitare dipartimenti e laboratori universitari ai piani terra, rendendo così appetibili, purché ad equo canone, a docenti, dottorandi e studenti le parti residenziali. Se Trento città universitaria vuole e deve essere, urgono scelte coraggiose che permettano inedite sperimentazioni abitative e produttive, anche particolarmente suggestive come quelle suggerite da Michele Nardelli. Ciò che va evitato è il prolungarsi dello stallo attuale, biglietto da visita che non fa bene alla salute di una provincia autonoma vocata, per sua secolare tradizione, ad osare l’impossibile, che si tratti di conciliare le diverse fedi o di fare dei confini cerniere che uniscono e non barriere che dividono. Non sono questi tempi di mezze misure: gestire la cosa pubblica richiede quel mix di ragione e sentimento di cui Kessler fu portatore e che oggi vorremmo vedere riaffermato nei fatti.