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Dacca, orrore e falsa coscienza

“La maledizione di vivere tempi interessanti‘ (50)

di Michele Nardelli

(7 luglio 2016) Il 24 aprile 2013 a Savar, nella grande periferia di Dacca (Bangladesh), crollava come un castello di carte il “Rana Plaza“, un edificio di otto piani che ospitava decine di laboratori tessili, oltre a negozi, abitazioni e una banca. Questi ultimi erano stati in precedenza evacuati per il manifestarsi di crepe nel palazzo, i laboratori no. Morirono 1129 persone, i feriti furono 2515.

Le ragioni del crollo addebitate alla scarsa qualità delle materie prime usate nella costruzione del palazzo ma soprattutto al peso dei macchinari per la lavorazione di prodotti tessili destinati al mercato globale con i principali marchi internazionali, compresa l’italiana Benetton.

Il maggior numero delle vittime di quell’immane tragedia del lavoro furono giovani operaie tessili, ammassate in condizioni disumane per uno stipendio da fame. A tre anni di distanza sono ancora aperti i procedimenti per le responsabilità penali e per le cause risarcitorie, se mai ci saranno. Ma nella retorica nazional-popolare di questi giorni sembra che tutto questo non ci riguardi.

Tutti sappiamo, se vogliamo sapere.

Sappiamo che la paga oraria di queste operaie è di circa 0,21 euro all’ora. Moltiplicate per 12 ore lavorative per 26 giorni vuol dire meno di 70 euro mensili.

Sappiamo che i capi di vestiario che arrivano nei nostri negozi ad un prezzo di 80 euro hanno un costo di produzione che non supera i 5 euro.

Sappiamo che le condizioni di lavoro non rispettano i più elementari diritti previsti dall’Organizzazione mondiale del lavoro (OIL).

Sappiamo delle aggressioni fisiche e degli abusi sessuali che spesso costellano il rapporto di ricatto cui sono sottoposte le lavoratrici, come sappiamo che i datori di lavoro spesso assoldano la criminalità organizzata per evitare la formazione di organizzazioni sindacali dei lavoratori, come denunciato dal rapporto del Human Rights Watch in Asia (http://www.repubblica.it/argomenti/Human_Right_Watch).

Così come dovremmo sapere che “l’esercito invisibile che solca il mondo“ di cui parlava Mario Calabresi su “la Repubblica“ non è un tutt’uno indistinto, che gran parte dell’internazionalizzazione si fonda sulla deregolazione più offensiva verso i diritti della persona, che anche nella “banalità del bene“ alberga l’insidia dei “civilizzatori“ e che non basta aiutare una ong per togliersi di torno la falsa coscienza.

A guardar bene abbiamo in realtà introiettato – nell’accettazione dell’idea di crescita illimitata – la divisione del mondo fra inclusione ed esclusione, laddove il destino degli esseri umani, nei palazzi o negli scantinati del turbocapitalismo come nelle stive dei trafficanti, sfuma nell’ineluttabilità del diritto naturale (cioè del più forte) o peggio ancora nella retorica dello scontro di civiltà. Concetto che vediamo riecheggiare nei commenti dopo l’odioso attacco terroristico di Dacca, tanto da mettere da parte la strage che nelle stesse ore si consumava a Baghdad con un bilancio di vittime almeno dieci volte superiore.

Che forse la vita delle persone abbia un valore diverso a seconda della carta d’identità? Mettiamo via, per favore, l’orgoglio nazionale ferito e la retorica degli “italiani brava gente“. Perché gli italiani – come tutti – non sono necessariamente brava gente.

In queste drammatiche circostanze, al doveroso cordoglio verso ogni vittima del terrorismo – quelle di Dacca come quelle di Baghdad – deve corrispondere l’impegno per tagliare le ali di ogni forma di terrorismo (che avvenga in nome di una religione o di uno Stato) come dell’ingiustizia quotidiana sulla quale prospera la terza guerra mondiale di cui parla Papa Francesco e nella quale tutti siamo coinvolti, a cominciare dall’affermata “non negoziabilità“ dei nostri stili di vita.

Per venirne a capo occorre un ripensamento generale, capace di ridare significato all’espressione “diritti umani“, sotto ogni cielo (che poi è lo stesso per tutti, come la terra).

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