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Roghia era in lista fra gli artisti ad alto rischio di Francia e Germania, ma per avere salva la vita è uscita dal paese e quindi ha poca probabilità di essere trasportata in un paese terzo. Mi risponde attraverso un messaggio vocale di quattro minuti e diciotto secondi con una voce che trema. «Siamo sotto zero, molto sotto, non vedo possibilità di ripartenza nei prossimi decenni». La sua voce incarna la bara sepolta che mormora ancora, una memoria che ha bisogna di tempo per trasformarsi in una storia.

Kava, crede che Anahita Ratabzad (1931 – 2014)1, potrebbe essere il punto Sifr-Zero dell’emancipazione femminile. Kava è un giovane poeta e scrittore di Herat. Condotto a Parigi alla fine del mese di agosto, lui come molti altri, riceve una telefonata in cui si conferma la sua presenza nell’elenco di artisti ad alto rischio del governo francese, per l’evacuazione immediata doveva raggiungere l’aeroporto di Kabul e provare ad entrare. “Ma come?” “Deve provare, se vuole partire, deve provare”.

Anche Kava ha passato due giorni e due notti in aeroporto. Ci inviava messaggi vocali mentre in sottofondo risuonavano il rumore degli spari e dei lacrimogeni, e chiedeva: Ma come si può entrare? Ci sono anche tante donne e bambini piccoli. Stanno lanciando lacrimogeni, i soldati francesi sono lontani, come si può entrare? Se vuoi passare, devi insisterete, devi rimanere.

Kava Jobranha passato le frontiere il 27 agosto 2021, ha perso il cellulare nell’aeroporto di Kabul. Rimasto due giorni in un grande centro di accumulazione e identificazione ad Abuzabi, vive da due mesi in un albergo per richiedenti asilo a Parigi. Mi ha lasciato un messaggio vocale, una voce esausta e potente come un fiume dopo l’alluvione, marrone, profondo e opaco. La sua voce mi interpellava con gli occhi socchiusi e mi chiedeva di fare una ricerca sui movimenti degli anni sessanta a Kabul e Anahita Ratabzad come il suo simbolo di donna libera e emancipata che dopo la fine degli studi negli Stati Uniti era ritornata in Afghanistan.

Similmente a Kava la pensa anche Mohsen Hosseini, cartoonista e pittore afghano in esilio in Norvegia da oltre sette anni. Per Mohsen la regina Soraya ( 24 novembre 1899 – 20 aprile 1968), potrebbe essere un ipotetico punto Sifr-Zero. Mohsen si scusa per non avere sufficienti studi storici in merito e aggiunge che probabilmente Soraya, la moglie di Amanollah khan è la portatrice dell’emancipazione femminile in Afghanistan.

Ali ha una visione diversa. Compagno di viaggio di Kava, da Kabul fino al Parigi, è il più giovane fra i viaggianti nel gruppo. Il peso violento dell’evacuazione, una parola questa che solo nel pronunciarla suscita brividi, ha avuto effetti minori sulla sua mente. Non vive la frammentazione di Kabul come un trauma devastante, ma come una possibilità per iniziare una nuova vita, imparare una nuova lingua e diventare tante altre cose.

Ha lasciato nonna e madre in Afghanistan. Da due anni progettava l’apertura di un laboratorio insieme alla nonna, immaginando lei come insegnante di ricamo per le giovani donne della capitale e come creatrice di sciarpe, lenzuola e soprabiti da vendere, arricchiti dei suoi fiori colorati di ricami che sanno di profumi della montagna e di alberi di albicocche. La nonna si distingueva dalle altre donne del villaggio: la gente racconta che era diversa fin dal principio, affrontava i viaggi da sola, da Kabul a Ghazni e da Ghazni a Mazare Sharif per vedere le figlie date in spose in terre lontane; era la nonna che faceva la spesa per l’inverno, discuteva con i negozianti del Bazar ed era sempre lei che tutti i commercianti conoscevano e rispettavano, disposti ad affidarle addirittura merce in anticipo e aspettare di essere pagati in primavera. Era sempre lei che, in assenza di tutti maschi di casa, migranti in viaggio per lavorare in terre sperdute del mondo, portava farina, riso, olio, sapone e sale per i mesi invernali.

Ali credeva che il negozio di Ricami di Kabul sarebbe stato un successo. Poi è accaduto quello che è accaduto e il paese è stato frammentato e Ali, giornalista e studente di teatro presso la facoltà di Belle Arti di Kabul, ha ricevuto una chiamata, la stessa di Kava e adesso vive in Saint Eloy Les Mines, in Francia.

Ali pensa che adesso le donne sanno che possono raggiungere l’indipendenza economica lavorando fuori di casa e non hanno bisogno degli uomini per il proprio mantenimento. Secondo Ali, il punto Sifr-Zero, è la trasformazione di questa coscienza in azione. Le donne hanno bisogno di avere indipendenza economica, ci sono anche molte famiglie monoreddito, la cui sopravvivenza dipende da madri, sorelle, figlie che lavorano e portano a casa la pagnotta. Secondo Ali, questa forza prima o poi riuscirà ad organizzarsi per esigere richieste precise e concrete.

La mia ultima conversazione si è tenuta con Shakiba Dawood. Lei è una regista teatrale, scrittrice e interprete di performance molto provocatorie2. Shakiba mi racconta che insieme ad un gruppo di suoi colleghi francesi sta ponendo questo interrogativo, e che studiando la visione di Henry Lefebvre3, in partenza ha avuto degli spunti interessanti.

«Prima della creazione di uno spazio politico o sociale esiste l’istante di immaginazione di tale spazio». Per Shakiba, l’immaginazione è il punto Sifr-Zero del movimento dell’emancipazione femminile in Afghanistan. Parliamo del Cafe Simple di Mina Rezaee, un caffè in Pole Sorkh a Kabul, il quartiere di librerie, bar e gallerie d’arte che, prima del 15 agosto, era il cuore pulsante della città. Il caffè Simple non era solo un posto per trovarsi a bere un buon caffè o una ottima zuppa della mamma di Mina, era un luogo in cui presentare libri, incontrarsi e organizzare manifestazioni, in cui piangere le morti dei colleghi nelle potreste (il monologo di Mina, in allegato).

«Cafe Simple, prima di collocarsi in uno spazio politico o uno spazio sociale era uno spazio immaginario. Mina lo aveva voluto, desiderato e immaginato e alla fine incarnato oppure collegato con lo spazio immaginario di sua madre, che preparava le zuppe profumate con le spezie dimenticate, con l’immaginario di una poetessa che leggeva per la prima volta i versi della sua poesia in persiano davanti a un pubblico all’interno di quello spazio con i muri blu, disegnati con cura, delicatezza e creatività».

Segue la nostra conversazione… lei morbidamente mi porta dentro il labirinto della sua mente.

«Sono nata a Tehran e ho vissuto in Iran fino a vent’anni. Dopo la caduta dei Talebani la mia famiglia ha deciso di ritornare in Afghanistan. Nel 2009 ho dovuto lasciare il paese, facendo parte del gruppo di teatro di Solei non potevo più subire le continue minacce nei miei confronti. Quando ho l’asciato l’Afghanistan, ero incita di mia figlia e adesso ormai da dodici anni vivo a Parigi. Quando mi chiedono da dove vieni, certe volte dico: Je suis Pers. E più facile… Né iraniana, né afghana, essere persiana, e non appartenere a nessuna aerea geografica. Penso che la mia identità sia ibrida, si trasformi, sia multiforme, diventa e ridiventa iraniana, afghana, francese, persiana, hazara… Sono tutte queste e nessuna di esse. Una identità ibrida, con un corpo e una lingua madre. Forse la lingua madre e il corpo sono più vicini all’origine. Ho un’origine solida fatta dal mio corpo e dalla mia lingua madre, e una identità ibrida, plastica e multiforme».

E poi continua: «Ogni tanto prendo appuntamenti tramite una piattaforma online per incontrare un ipotetico partner. Quando ci vediamo per la prima volta, magari per bere una tazza di caffè o un bicchiere di vino, ciò che ci interessa è il modo di parlare e stare, le parole che usiamo e il modo in cui le pronunciamo. Spesso non chiediamo delle origini, ma cosa ti piace, che libri hai letto, dove vorresti viaggiare». «…l’Afghanistan non c’è più, è stato frammentato. Ma esiste un Afghanistan immaginario, con la lingua persiana, la sua musicalità e la sua poesia ed è il nostro paese immaginario. Sto pensando di scrivere una sceneggiatura, posso fare le sagome, sono brava a farle, magari troverò anche la produttrice».

Giovedì 27 ottobre c’è stata la presentazione del libro di Ashraf Forough a Kabul. Il suo libro è una antologia delle sue poesie d’amore e s’intitola “Correre, lettere per Malila”, la verità è che non ho mai avuto l’attimo per dirti che ti amo, non ti ho mai baciato. “Correre, lettere per Malila”, è il primo libro pubblicato dalla casa editrice Vaje (Parola) dopo la caduta di Kabul. L’editore del libro e anche libraio di Pole Sorkh, uno dei più affollati e amati di Kabul, uno dei pochi che non hanno lasciato il paese. Vorrei concludere questo scritto con il link della presentazione del libro in questo Afghanistan Immaginario: https://www.youtube.com/watch?v=_Eg1UEBABYs

Novembre 2021

1 Anahita Ratebzad (Dari, novembre 1931 – 7 settembre 2014) è stata una socialista afghana e una politica marxista-leninista, membro del Partito Democratico Popolare dell’Afghanistan (PDPA) e del Consiglio Rivoluzionario sotto la guida di Babrak Karmal. Una delle prime donne elette al parlamento afghano, Ratebzad è stata vice capo di stato dal 1980 al 1986.

2 The artist Kubra Khademi in a street performance in Kabul, Afghanistan, in 2015.

3 Lefebvre, Henri (1901-1991), La production de l’espace.

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