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La frattura e la ricomposizione. Ritrovarsi, riflettere, riprogettare.

SCHIANTI

E’ in questo frangente gravemente sfavorevole che nell’autunno dello stesso anno in Trentino si rinnova il consiglio provinciale. La Lega (e una variegata galassia di liste civetta a corredo) ci arriva con il vento in poppa e vince, grazie a un risultato imponente soprattutto nelle vallate. La coalizione di centro-sinistra si sfalda dopo un’estate di beghe – il termine confronto sarebbe forse troppo generoso – più sui nomi che sulla necessaria ri-progettazione del territorio che governa da decenni.

Si chiude lì un ciclo trentennale, per certi versi glorioso. Per altri – non saremmo qui a discuterne altrimenti – gravemente insufficiente. La premessa di sistema alla caduta.

Contesto globale, nazionale e locale si riallineano (a destra) all’ombra dell’onda montante di un’internazionale sovranista che ha in Donald Trump il suo esempio più ingombrante, con il mondo punteggiato da una serie di truci alleati. Si teme (a ragione) per la tenuta democratica planetaria, tanto istituzionale quanto economica e sociale.

L’andamento di questa fase (dal 2016 al 2020 per darci delle coordinate temporali comprensibili) è tutt’altro che lineare e ci restituisce uno scenario politico disordinato e nervoso, interconnesso e allo stesso tempo frantumato, instabile e litigioso.

Cosa ci si potrebbe aspettare da un pianeta sull’orlo di una irreversibile crisi climatica, di una possibile estinzione di massa del genere umano?

Il primo atto, fortemente simbolico, a cui è chiamato il Presidente Fugatti – ancora prima di insediarsi – è legato alle conseguenze di Vaia (tra 26 e 30 ottobre 2018). Si deve recare a Dimaro, dove il Trentino piange una vittima per l’esondazione del Rio Rotian e poi nelle altre zone dove la forza del vento ha sradicato ettari ed ettari di bosco, e con essi cancellato decine di anni di cura quotidiana e meticolosa del territorio.

ANNO DI PROVA

L’inizio del 2019 sembra proseguire in continuità con l’annus horribilis che lo ha preceduto. Salvini imperversa – pur contestato a più riprese, da più parti – e sembra riempire mediaticamente ancor più che politicamente la scena.

Sono i mesi dominati da La Bestia.

A mancare – almeno nella politica mainstream, almeno nella maggioranza dei suoi interpreti –sembrano essere i ragionamenti di prospettiva, le visioni, gli sguardi rivolti alle prossime generazioni. Quelle generazioni che, invece, danno segni evidenti di insofferenza e vitalità.

Le piazze riempite da Friday for Future che mettono al centro dell’agenda politica i temi ambientali con rinnovata radicalità e urgenza. La diffusione a macchia d’olio delle manifestazioni legate a doppio filo con il movimento Black Lives Matter, dagli Stati Uniti al mondo intero, con un chiaro focus antirazzista e postcoloniale. La capacità dei movimenti femministi di sviluppare pensiero e azione intersezionale, cioè orientato alla condivisione e all’interdipendenza delle lotte. L’emersione – in diverse forme e luoghi – di una nuova classe politica volitiva e visionaria, che incrocia temi (l’ambiente e la giustizia sociale, i diritti civili e nuovi modelli partecipativi) e propone nuovi schemi di formazione, attivazione e agitazione sociale.

Segnali dal futuro, si potrebbe dire. Piazze, strade, lotte interconnesse da una generazione che più di molte altre percepisce lo scalino tra la propria generazione e le precedenti. Prove di trasmissione che si muovono su un terreno ancora dissestato, fornendo utili appunti ma faticando contestualmente a fare sistema, a trasformarsi in opzione politica.

A livello locale la Giunta Fugatti – eletta sulla base della promessa di “smontare il sistema” – si mette all’opera su argomenti simbolici, come i corsi scolastici sull’educazione di genere (cancellati), i fondi e le attività per la cooperazione internazionale (fortemente ridotti) e l’accoglienza per i richiedenti asilo (smantellata nella sua forma diffusa sul territorio). L’opposizione – istituzionale e sociale – si fa sentire, a fronte di una maggioranza che non ammette (così come confermato in seguito, alla fine del legittimo “rodaggio”) nessun tipo di dialogo o confronto.

Tutto lineare? Neppure per sogno. Arriva la folle settimana del Papeete e la prima vera esperienza di crisi balneare. Si torna a votare? No, con l’autunno oltre al cambio del colore delle foglie cambia anche la maggioranza di governo. Giuseppe Conte volge di 180° lo sguardo e si scopre adatto ad essere la guida (“un fortissimo punto di riferimento di tutte le forze progressiste” osò definirlo qualcuno) anche di un governo dalle tonalità giallorosse.

Il cambiamento è radicale solo nell’alchimia delle maggioranze.

In parte per la continuità di governo stravagante garantita dal M5s, collante della legislatura, l’approccio ai temi che hanno caratterizzato il governo giallo-verde non viene intaccato dalla seconda versione di Conte. In parte, perché non ci sarà molto tempo per valutare i reali cambiamenti che tale stravolgimento istituzionale avrebbe potuto comportare nelle scelte sui grandi temi (giustizia sociale vs ampliamento delle diseguaglianze, porti aperti vs porti chiusi, progressività delle imposte vs flat tax, diritti civili vs la loro negazione).ùDi lì a pochi mesi il battito d’ali di un pipistrello in una pressoché sconosciuta metropoli cinese scompaginerà la fragile e tutt’altro che salubre normalità dell’intero pianeta.

Di un’unica cosa possiamo essere certi. Il combinato disposto tra impazzimento della struttura parlamentare (e parallelamente partitica) e non ancora sufficiente consolidamento di soggetti sociali e politici alternativi mette l’Italia in una condizione di grave instabilità e tensione, pericolosa per la tenuta (istituzionale e non) del paese in tutte le sue articolazioni.

Una fragilità congelata dalla gravità della pandemia e dalla profondità della crisi.

 

GLI EFFETTI DI UN VIRUS GLOBALE

L’andamento di crescita della ninfea è particolarissimo. Raddoppia le proprie dimensioni di giorno in giorno. Il giorno prima la superficie è ancora per metà libera, mentre il giorno dopo il tappeto verde ha ormai coperto tutto. Questa è la metafora che Michele Nardelli e Diego Cason usano per spiegare l’effetto dei cambiamenti climatici sulle nostre abitudini e sui nostri stili di vita.

La possiamo applicare benissimo anche per l’evolversi della situazione collegata al Coronavirus. Ieri, febbraio 2020, la situazione sembrava ancora gestibile e oggi, poche settimane dopo, invece sembra venir giù tutto, con l’incapacità generale di reagire a una malattia che invisibile si muove non rispettando barriere e confini.

La pandemia da Covid19 (tossica ninfea di quest’ultimo anno e mezzo) è stata evidenziatore di criticità, acceleratore di fenomeni.

Alcune evidenze erano già totalmente in luce, altre erano solo in attesa dell’innesco giusto per mettersi in moto. Il ritorno in primo piano dello Stato (della prevalenza del pubblico e del comune sul privato) e la contemporanea interruzione brusca e parziale dei flussi della globalizzazione. La centralità della cura – sanitaria, culturale e ambientale – e il bisogno di politiche innovative in questo campo. La trasformazione di una serie di paradigmi nelle governance sovranazionali (il riemergere fin troppo propagandato di un certo multilateralismo) e il superamento delle logiche dell’austerity europea, sotto la spinta di una nuova stagione di progettazione e investimento condivisi.

Da febbraio 2020 lo scenario ha subito un’ulteriore svolta.

Il virus ha stravolto la timeline collettiva – quella del pianeta come la nostra personale – fissando la priorità assoluta nella salute pubblica da tutelare, nel contenimento del contagio, nella ricerca e nello sviluppo dei piani vaccinali che a distanza di mesi vediamo ora funzionare in Occidente ed essere ancora gravemente insufficiente nei paesi impoveriti del Sud.

Le ha stravolte ma – paradossalmente – le ha consolidate: la distanza tra Nord e Sud del mondo non solo è aumentata ma è diventata evidente nella quotidianità di tutte e tutti noi. Abbiamo visto in maniera plastica l’esistenza di un “global north-global south” nelle nostre comunità, nelle nostre strade: #iorestoacasa è diventato il ritornello comune della nostra (ir)responsabilità.

Le persone senza dimora, certo, ma anche chi tra di noi si è sentito abbandonato: giovani che non hanno vissuto che crisi, anziani rimasti senza famiglia, persone sole, donne vittime di violenza.

Tutto ciò ha significato e significa moltissimo in termini di restrizioni e vincoli, di sofferenze e dolori, di incertezze e preoccupazioni. Un ulteriore avvitamento della complessità con cui siamo costretti a fare i conti.

Non meno incisivi sono stati gli effetti del virus sugli equilibri politici e sull’evoluzione della geografia istituzionale, ad ogni livello.

Connessa alla pandemia è la vittoria di Joe Biden negli Stati Uniti (molti commentatori segnalano che senza la rielezioni di Donald Trump sarebbe stata più probabile) e la sua conseguente traiettoria di governo, espansiva in economia e fortemente incentrata su un welfare generoso e su azioni volte alla riduzione delle diseguaglianze economiche e sociali.

Una traiettoria che arriva da lontano. Da diverse occasioni elettorali – le vetrine attraverso le quali guardiamo la politica americana – sono sempre di più le elette e gli eletti che rappresentano il frutto di leadership locali, giovani, non più WASP, White Anglo-Saxon Protestant (“bianco di origine anglosassone e di religione protestante”).

Persone che rappresentano bisogni e interessi che hanno saputo organizzarsi: “they have money, we have people”, scriveva Saul Alinsky. Da lui a Stacey Abrams corre un filo rosso unico: la riscoperta di tecniche e pratiche, così come della cultura dell’organizzare gruppi e comunità, è stato un ingrediente per il rilancio del Partito Democratico che lo ha reso un soggetto (più) credibile e capace di rappresentare gruppi sociali subalterni.

Sulla stessa rotta – con budget ridotti e con qualche impaccio in più – sembra muoversi anche l’Unione Europea, attraverso i programmi Next Generation EU, Recovery Fund, il fondo Sure (un primo sistema comunitario di protezione sociale) e l’ipotesi di un Green New Deal capace di velocizzare e radicalizzare i processi di transizione ecologica.

Per quanto riguarda l’Italia abbiamo conosciuto il terzo cambio di governo (dentro quasi tutti!!!) e la discesa in campo di Mario Draghi, nella veste di pacificatore e competente traghettatore del paese dentro le strade tortuose del PNRR (Piano Nazionale Ripresa e Resilienza) e delle riforme a esso collegate.

I primi cento giorni – non ci si poteva aspettare niente di diverso – sono ambivalenti, con qualche slancio e diverse delusione. Una situazione quella paradossale e rischiosa, dove la centralizzazione sul Presidente del Consiglio finisce per svilire e marginalizzare il dibattito politico e l’azione delle forze – partitiche e non – che lo dovrebbero animare.

E’ il momento per la Politica – sia essa quella europea, nazionale o locale – porre fine al suo già troppo lungo e severo coprifuoco.

CO-PROGETTARE L’ALTERNATIVA

Dal 2021 e 2023 il passo è breve. Si tornerà al voto, con una nuova sovrapposizione tra elezioni politiche e amministrative in Provincia di Trento. Se Mattarella manterrà la parola data al termine del settennato non prenderà in considerazione di proseguire (magari per un breve periodo, come avvenuto per il suo predecessore Giorgio Napolitano) e “costringerà” il Parlamento impazzito di cui sopra a trovare un candidato o una candidata credibile entro l’autunno 2022.

L’opzione Draghi al Quirinale interromperebbe la legislatura in anticipo e prevederebbe un complicato incastro ad alto contenuto politicista. Frutto di tattiche tutt’altro che visionarie da parte dei partiti chiamati oggi a svolgere un ruolo di rappresentanza che faticano ad esercitare fuori dalla bolgia dei social e dalla frenetica rincorsa dei fatti del giorno.

Storpiando Degasperi si potrebbe dire: “gli statisti pensano alle prossime elezioni, i politici al prossimo tweet.”

I sondaggi attuali – da prendere con le molle perché figli di un’opinione pubblica estremamente volatile – ci parlano di una potenziale vittoria delle destre, con un ruolo non più marginale della componente neo-fascista guidata da Giorgia Meloni, e di una preoccupante incapacità del fronte di centrosinistra di ri-organizzarsi sulla base di una proposta chiara e adatta al tempo postpandemico che ci attende, a quel “cambio di paradigma e d’epoca” a cui abbiamo fatto spesso riferimento.

Poche ma precise sono le proposte da rintracciare, sostenere e – dove possibile – portare a realizzazione. I temi sono tutti in vista. Giustizia sociale ed economica, intrecciate con un’ambiziosa strategia per la transizione ecologica. Ci sono poi insieme diritti sociali e civili, punto di connessione tra libertà individuali e responsabilità collettive. Accesso all’istruzione e alla cultura, intese come linguaggi condivisi per una rinnovata convivenza tra divers. Sullo sfondo – cioè alla base, posta come fondamenta – modelli e processi democratici partecipativi e deliberativi, capaci da abilitare cittadini e cittadine trasformandoli in comunità attive e vivaci.

Molteplici (davvero) sono i contesti – più o meno organizzati, più o meno affini – dentro i quali si lavora quotidianamente su queste rotte, si studiano e approfondiscono buone pratiche e si costruiscono politiche.

Una miriade di rivoli che possono – devono – farsi fiume impetuoso. Singolarità che prendano forma di percorso comune, di alleanza generativa, di co-progettazione dell’avvenire.

 

IL TRENTINO CHE VOGLIAMO

Tornando in conclusione al territorio provinciale, quel che rimane del 2021 dovrà essere il momento di rimettere in moto pezzi importanti del tessuto produttivo (basti pensare al turismo) e dei mondi sociali e culturali (entrambi fortemente colpiti da mesi a scartamento ridotto).

Serviranno investimenti – di pensiero e materiali – in ambito sanitario (quale modello vogliamo implementare?) e formativo (come rivedere il sistema scolastico oggi fortemente sotto stress e come valorizzare le istituzioni universitarie?).

Non potrà mancare una riflessione approfondita su quali infrastrutture privilegiare (siano esse per la mobilità, per il welfare, per l’innovazione, la cooperazione o il credito) nella piena consapevolezza che nessun territorio è un’isola e che l’interdipendenza e la cooperazione dovranno essere parole chiave della fase storica che stiamo attraversando.

Questa rinnovata voglia di immaginare e progettare collettivamente è condizione minima (e vera rivoluzione copernicana nel centro-sinistra trentino) per un avvicinamento utile e coinvolgente alla scadenza elettorale che ci aspetta tra circa 24 mesi, per nulla scontata nel risultato che rischia di essere fortemente viziata dalla vasta mole di risorse che la giunta leghista potrà mettere in campo.

Progettare significa proiettare. Guardare oltre, non rimanendo ancorati al presente.
Accettando i rischi della possibile caduta, dell’inedito che ancora non ha preso forma.
Sapendo parlare con una voce sola, quando serve.
Sapendo farsi molteplici e rendendo fecondi i saperi e le energie di ognuno.
Facendo così (pensando e agendo) la nostra parte per immaginare e costruire il Trentino che vogliamo.

Sì, questo è un appello accorato all’incontrarci presto, tra tant@ e divers@.

Un invito a superare il passato, a uscire dal presente, a scegliere di costruire futuri diversi, da scrivere della prima pagina, e a farlo ora, consapevoli della complessità dentro la quale ci muoviamo.

 

*** Emanuele Pastorino e Federico Zappini

2 Comments

  1. Vincenzo Calì ha detto:

    vincenzo.cali@gmail.com
    “Eppur si muove…”
    nello stagno dello stato presente di morta gora locale e globale giunge l’articolato intervento di Pastorino e Zappini a richiamare in vita una parola antica: a dispetto del presente politico, che segna nei fatti il trionfo neoliberista, la rivoluzione è alle porte. Mancano al presente i rivoluzionari preparati, come si diceva nell’autunno capitalista del sessantotto, a rendere edotto il popolo del fatto che le idee giuste nascono “dalla pratica sociale”. Il programma, e l’analisi pregressa dei due autori ne fanno i soggetti adeguati alla ripartenza. Il fallimento neoliberista è un infortunio passeggero, o per il capitalismo suona la campana? Se più Stato oggi richiama la sindrome cinese, può bastare un timido programma socialdemocratico-riformista? Al passaggio della destra al potere ogni porta è spalancata senza il protagonismo di donne ed uomini di cuore e cervello. Buon lavoro a Emanuele e Federico.

  2. vincenzo Calì ha detto:

    Sempre riguardo l’invito degli *** e scendendo nel dettaglio, credo si debba convenire sul fatto che sempre più urgente si pone quella profonda trasformazione ecosociale che sola può toglierci, anche qui in Trentino, dallo stato di minorità autonomistica in cui siamo caduti. Roberto Toniatti in un’intervista rilasciata al “Corriere” auspicava che ai fini di una necessaria interazione fra politica e ricerca nascano “più Centri sociali in nome dell’autonomia”; quasi un richiamare in vita lo spirito della riforma disegnata a suo tempo da Paolo Prodi. Di fronte alla risposta in ordine sparso di Stato e Regioni alla sfida pandemica, torna d’attualità l’opzione federalista, l’unica in grado di contrapporre un’idea di progresso alla micidiale miscela esplosiva di centralismo e localismo sotto i colpi della quale hanno finito per arenarsi anche i laboratori di futuro messi in piedi nei territori retti da speciali autonomie. Trento, che in quanto a laboratorio ebbe la primogenitura già a fine anni sessanta, con il tentativo alberoniano di rilancio della sociologia, vide negli anni ottanta concretizzarsi un progetto organico potenzialmente fondato su di una cultura autonomistica. Il tutto nacque da una triangolazione fra enti che seppero porre al centro della loro riflessione studi finalizzati ad individuare le forme del buon governo più idonee a territori segnati da storiche specialità e una leaderschip politica particolarmente sensibile al tema dell’innovazione. Paolo Prodi, primo Rettore della nostra Università, terminò la lectio, dedicata a Roberto Ruffilli per l’inaugurazione nel 2002 dell’anno accademico bolognese, con le seguenti parole:
    “dobbiamo dichiarare ad alta voce che la stessa libertà e democrazia sono in pericolo, al di là dei garantismi formali e della stessa proclamazione dell’autonomia universitaria , delle “magnae chartae”, nella misura in cui viene meno la dialettica fra i poteri, quando essi tendono a fondersi in un unico monopolio, nel quale lo studium è ridotto a strumento di un altro potere (teocratico,politocratico o plutocratico che sia) e i docenti divengono consulenti del principe o del mercato.”
    Oggi che i pericoli paventati da Prodi si materializzano col “commissariamento” degli enti culturali, va ricordato che capisaldi di quell’ impegnativo progetto dai lineamenti utopici, furono l’istituto Agrario di San Michele, il contiguo Museo degli usi e costumi, il Museo di scienze naturali,il progetto roveretano del Museo delle avanguardie artistiche del Novecento e l’Università nelle sue linee di ricerca sull’intelligenza artificiale. Lo staff che operò alacremente all’impostazione dell’ambizioso progetto di rilancio delle autonomie locali – si può parlare di sole “schegge d’autonomia” in un tormentato territorio come quello che si estende dal Brennero a Borghetto- ebbe come guida una coppia di studiosi del calibro di Paolo Prodi e Pierangelo Schiera . Impresa temeraria certo, quella intrapresa dai due, ma non donchisciottesca. Con la decisione di Prodi di abbandonare Trento, essendo venuto a mancare lo spirito di nuova frontiera che aveva caratterizzato nella sua fase iniziale la vita dell’Ateneo, anche la spinta all’innovazione finì per esaurirsi. Sono forse le visioni di Prodi destinate ad essere cancellate? Apparentemente sì, se stiamo all’immediato raggiungimento degli obiettivi che si era prefisso: non decollò quell’università regionale che avrebbe dovuto consolidare il rapporto fra Trento e Bolzano, si esaurì presto la funzione di Trento come stazione di posta fra i mondi latino e germanico, segnò presto il passo il progetto di fare di Trento un campus universitario fondato sulla residenzialità del corpo docente, precondizione per la crescita di una comunità di studi. Se però poniamo lo sguardo al presente e al suo immediato futuro, tutto concorre a dirci che lungo le strade indicate da Prodi si debba continuare il cammino: lo richiede l’impresa universitaria ad un bivio fra crescita e declino, l’insieme delle accademie e fondazioni scientifiche in attesa di rilancio, una società civile rispetto ad ieri più matura, e consapevole delle sfide in atto: nella prospettiva, per ora lontana, di una futura Europa unita, quella indicata da Prodi rimane la strada maestra per rendere meno accidentato il già difficile cammino delle tradizionali autonomie. Se il “Frame” entro cui si vince o si perde in termini di civiltà è l’Europa, i popoli devono riappropriarsi della sovranità, non delegandola più a rappresentanze delegittimate ed esercitando quella democrazia diretta che sola permetterà una ripresa. Solo con la rivoluzione dell’uomo comune si potrà dar vita alle utopie concrete pensate ai tempi che sono stati il principale oggetto degli studi di Prodi e che tradotte oggi, entro un’unione federale europea, in questo piccolo ridotto alpino si possono così declinare: non vecchie provincie, ma per volontà di Austria e Italia due comunità dotate di una piena autonomia sancita da un comune statuto e con una Università regionale condivisa. Questo è quanto Prodi avrebbe voluto, ed è quanto le due comunità che vivono in questa terra, “California d’Europa” come ebbe a definirla uno dei suoi figli maggiori, sono chiamate a realizzare nei tempi a venire.”
    Da un seminario di riflessione sul perché del mancato decollo dei processi di innovazione avviati con il secondo statuto d’autonomia, strada più volte suggerita da Toniatti, potrebbero venire utili indicazioni metodologiche e di merito a più voci, così sentitamente sollecitate (***).
    Vincenzo Calì