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Ripensare la politica in un viaggio verso il termine della notte

Michele Nardelli, trentino, dopo una lunga esperienza politica nell’ambito di una sinistra critica ma non aliena dalla possibilità di esprimersi anche in sperimentazioni di governo, ha iniziato da tempo quello che chiama “un viaggio nella solitudine della politica” per cercare di capire se quanto succede in giro per l’Italia ed il mondo può dare indicazioni sulla possibilità di riprendere un cammino che veda la politica come luogo nobile della esperienza umana.

Ultimamente Michele Nardelli assieme all’amico Federico Zappini, con due scritti “Inedito inizio” e “il crepuscolo di un sistema” ha cercato di costruire una riflessione che, pur non essendo di per sé operativa, sembra voler dare indicazioni per un cammino da riprendere, forse a partire dalla realtà trentina ma dando alla loro ricerca una valenza più generale.

Le considerazioni che seguono mi sono state stimolate dalla lettura di questi testi, oltre che dall’aver seguito sia pure quasi sempre da lontano il cammino della “solitudine”. E si riconnettono alla mia esperienza di territorio sviluppata in questi ultimi cinque anni nel tentativo di scoprire una possibile nuova dimensione politica della tradizione autonomista e nazionalitaria del Friuli.

 

L’inadeguatezza del pensiero politico ed economico dell’occidente: stato nazione e crescita non permettono più di dare un senso al futuro

Siamo tutti sempre più attoniti di fronte all’evoluzione delle “culture” politiche di massa in questo inizio del XXI secolo. Ne nasce una domanda: “può la cultura occidentale proporre un nuovo pensiero politico e sociale in discontinuità con il passato e proporsi un nuovo inizio di riscatto verso la libertà e l’uguaglianza?”

La mia risposta è “No”, perché la storia della nostra egemonia nella modernità si è ormai compiuta con il secolo passato ed oggi i fili della storia partono da altre centralità.

Il pensiero politico occidentale che al suo centro ha valori universali come democrazia, libertà ed uguaglianza vive oggi una urgenza drammatica: quella di dover gestire senza strumenti adeguati la prospettiva della difesa di brandelli di “welfare” a disposizione delle classi popolari. In una situazione dove il nemico di classe non è più un capitalismo fisicamente individuabile nei “padroni” ma sta nella aspirazione di popoli, in passato esclusi dalla storia, ad avere il diritto allo “sviluppo” ed a modelli di vita comparabili.

Ne nasce così una contraddizione profonda soprattutto per noi cittadini d’Europa. Se sinistra vuol dire stare con i bisogni sentiti dal “popolo”, i fascismi ed i sovranismi di oggi appaiono negli stati democratici l’unica sinistra possibile. Casa Pound, Forza Nuova, Fratelli d’Italia e Lega “Italia” sono la sinistra che il popolo vede. Ma sono anche la certezza dell’avvicinarsi della caduta dell’impero.

Da cosa è fatta ancora oggi la cultura politica dell’occidente, una merce apparentemente esportata dappertutto? E’ costituita da due elementi: dalla strutturazione del mondo in stati nazione e dall’affermarsi di una “para scienza” chiamata “economia politica” il cui paradigma della crescita vincola l’intero pianeta, anche fisicamente.

Il direttore del Sole 24 H, Sergio Fabbrini, nei suoi fondi politici pre elettorali, a nome di poteri reali che oggi si sentono in pericolo all’interno della società italiana, ha indicato le elezioni del 4 marzo 2018 come un nuovo 18 aprile (1948), dove però lo scontro non è più tra libertà e comunismo, ma tra due concezioni di Europa, quella di Visegrad e quella di Ventotene.

Da un lato i neo sovranismi e le tradizioni nazionaliste, pensati come “diga contro l’impoverimento e il dilagare delle disuguaglianze”, e dall’altro l’idea di una Europa dove diritti civili e sociali possono essere garantiti da stati nazione solo grazie all’ampliamento delle libertà economiche. A leggere bene però il dilemma proposto appare ancora quello tra libertà (di impresa e di mercato in un capitalismo non regolato) e un surrogato nuovo di comunismo, che dovrebbe proteggere non la classe operaia ma i cittadini della nazione. Surrogato già conosciuto 100 anni fa, anche se allora in concorrenza con la marca autentica del “bolscevismo”.

Al di là del risultato elettorale che, stando ai numeri ,dovrebbe essere un 18 aprile inverso, siamo di fronte a due bugie colossali, basate su un rinnovato ruolo dello stato nazione. Nel primo caso per “governare” il proprio isolamento e favorire chi domina al suo interno. Nel secondo per “garantire” i colossi economici globali.

Oggi ambedue i capisaldi della egemonia politico economica del pensiero occidentale sono non solo in crisi ma totalmente inadeguati ad esprimere i bisogni degli uomini nel XXI secolo. Gli stati nazioni non definiscono più gli spazi del confronto e delle decisioni politiche. La “crescita” nel suo progetto illimitato del neo liberismo attuale sta mangiando le basi dello stesso futuro del pianeta.

Un pensiero realmente libero vola ormai lontano dalla tradizione occidentale e rende obsoleta ogni nostra convinzione di centralità. Ma non ce ne accorgiamo. Ed è anche per questo che abbiamo accolto con estremo fastidio l’enciclica “Laudato sì” di papa Bergoglio.

 

Perché la “sinistra”, pur esprimendo valori ancora attuali, non è più una opzione politica praticabile

Una opzione politica di “sinistra” esiste quando riesce ad esprimere valori che interpretano la società nella sua aspirazione di “libertà ed uguaglianza” ma sa anche esprimere un progetto sociale ed economico che materializza l’applicazione dei principi in maniera diversa da altre opzioni politico-economiche.

Se la sinistra rimane solo alla proclamazione di puri principi morali di riferimento, si tratta di un apprezzabile protagonismo etico. Ma altri strumenti a disposizione, come ad es. la religione espressa nell’attuale periodo storico da Papa Francesco, possono affermare questi principi addirittura meglio grazie alla vocazione spirituale ed alla visione ampia sull’intera umanità.

La “inutilità” della sinistra occidentale proviene proprio dalla impossibilità o incapacità di esprimere una opzione autonoma del sociale e dell’economico dentro l’attuale dinamica del neo liberalismo e della globalizzazione produttiva e finanziaria. Né rivoluzionaria né riformista.

Il motivo fondamentale sta nel fatto che la cultura politica occidentale di sinistra è sempre prigioniera dei due elementi fondamentali che hanno caratterizzato il pensiero politico occidentale: lo stato (nazione) come spazio di azione della politica stessa e la “crescita economica” come valore di misurazione della evoluzione del grado di progresso che coinvolge una popolazione.

Certo, in passato la sinistra si è distinta su come stimolare e gestire la crescita, nell’ambito principalmente di politiche espansive della spesa pubblica e in percorsi di redistribuzione delle ricchezze in funzione sociale, e per garantire concrete forme di libertà ed uguaglianza ai cittadini.

Le teorie keynesiane prima e la costruzione degli stati del welfare poi sono stati i punti ottimali di caduta di questo ruolo delle sinistre occidentali. E sono state alla base di veri e propri “patti” tra cittadini e istituzioni statali sottoscritti proprio durante il drammatico scontro della seconda guerra mondiale.

Ma oggi il permanere della sinistra negli spazi politici degli attuali stati nazione e dentro una ideologia di crescita illimitata ne annulla sostanzialmente ogni ruolo. Proprio perché ciò è molto meglio gestito da sistemi politici autoritari e da destre nazionaliste che in nuove sovranità nazionali accompagnate da scelte economiche protezioniste trovano il loro consenso popolare. Con per di più la capacità di indicare nemici concreti da combattere, come gli immigrati, piuttosto che figure virtuali sempre più sfuggenti come i “padroni ed il capitalismo”.

Per non essere subalterna alla nuova destra ed incompresa dai cittadini e dalla società sul piano politico, la sinistra deve uscire da questa prigione, senza peraltro scegliere il campo nemico del neo liberalismo come ha fatto per decenni in situazioni cardine della trasformazione sociale ed economica: vedi Gran Bretagna, Usa ma anche Germania, Italia e Spagna. Non è più sufficiente per farsi votare esprimere principi universali dei diritti dell’uomo e cercare di convincere che l’unica ragione di una propria presenza è impedire di governare a chi non condivide questi principi. La differenza o diventa materiale o non è.

C’è comunque una linea “rossa” che pur provenendo dal passato trova una sua attualizzazione di fronte a disastrose situazioni di crisi, sia sul piano del lavoro che su quello dei diritti sociali. Si tratta della richiesta di massicci stimoli espansivi dell’economia ricorrendo ad interventi pubblici.

Cenni se ne trovano nelle campagne elettorali tedesca ed italiana ma il riferimento di fondo è al consenso “pur non vincente” che hanno ottenuto Corbyn in Gran Bretagna e Sanders negli USA.

Quale è il limite di queste proposte e la sostanziale loro impraticabilità politica? Le politiche Keynesiane a livello di stati nazione oggi sono credibili e praticabili solo con una forte connotazione nazionalista, spesso autoritaria, e non possono che diventare strumenti di riorganizzazione di “poteri” e degli intrecci di potere, spesso anche criminali, tra emergenti oligopoli economici e gruppi dominanti politici (e comunicativi). In Italia le opere che ne deriverebbero sono già lì pronte a partire dalla Legge obiettivo del 2001 con TAV, Ponte sullo stretto di Messina, e così via. Nulla di tutto ciò può aiutare a far emergere i valori di libertà ed uguaglianza e far avanzare sostanzialmente nuove forme di democrazia.

Va tuttavia segnalato che ben diversa può essere la situazione, proprio in termini di costruzione di una società democratica basata su valori di solidarietà, se queste politiche espansive, o meglio di difesa dagli effetti distruttivi di economie globali, partono dal territorio e sono in grado di connettere iniziative di “contrapposizione alla decrescita” (occupazione, reddito, sicurezza territoriale, etc.) ad elementi di riorganizzazione di poteri popolari. Non si tratta perciò solo di iniettare risorse nel livello locale ma anche di permettere lo sviluppo di iniziative dove la prevalenza va alla ricerca di valori d’uso per le comunità e non la messa a disposizione del territorio alle pure dinamiche del mercato globale.

Ma è evidente che queste politiche possono essere attuate solo in situazioni dove i processi continui di centralizzazione dei poteri statali vengono sconfitti e dove permane una autonomia decisionale sostanziale dei territori. L’Europa comincia ad essere attiva in questa domanda, dalla Catalogna al Veneto; ed è a partire da ciò, che la sinistra dovrà ricominciare un suo dibattito se vuole ritentare di essere utile alle comunità ed ai cittadini.

 

Un mondo che si trasforma ci pone di fronte ad una metamorfosi della realtà. Servono nuovi paradigmi interpretativi delle economie e delle relazioni tra comunità

Ognuno di noi legge la propria esperienza antropologica sulla base di idee e conoscenze che si è fatto nel tempo e che ritiene pienamente rispondenti alle proprie prospettive esistenziali. Tanto più quando un sistema di comunicazione ne dà conferma proponendo una dialettica politica che risponde formalmente a determinare leggi. Il nostro spazio apparente è quello di una Repubblica italiana con una legge fondamentale che la definisce, la Costituzione.

Così interpretiamo le relazioni umane che siamo abituati a praticare secondo uno schema che definisce i variabili intrecci tra economia, socialità e politica. L’economia fornisce gli strumenti di sopravvivenza materiale, le relazioni sociali determinano l’aggregarsi degli interessi e le domande emergenti, la politica organizza sistemi istituzionali di potere (o di ripartizione del potere) in grado di mantenere “ordinati” i conflitti di supremazia, trasformandoli possibilmente in collaborazioni.

Il modello che sentiamo come nostro è quindi quello dello “stato sociale” in cui tutti vincono: l’economia si espande e produce profitti che accontentano gli investitori (e li stimolano a continuare), i margini della tassazione e della ridistribuzione pubblica permettono a tutti gli strati sociali di migliorare il proprio “status”, e la politica può produrre sintesi accettabili, magari oscillando un po’ qua e un po’ là tra capitale e lavoro.

Ma questa nuvola fantastica in cui pensiamo di essere immersi è una colossale bugia. I cosiddetti “favolosi trenta” sono finiti ormai da quasi mezzo secolo e questo mondo e questo modello di stato nazione “sociale” non esistono più.

Se ciò sia stato il risultato di una asfissia della crescita economica in una limitata parte del mondo o il risultato di uno scontro di classe vinto dai “padroni” nella loro volontà di aprirsi praterie infinite di business a livello globale, ha ormai poca rilevanza.

Il risultato è stato la distruzione di un processo di “crescita”, geopoliticamente definito e limitato al club delle democrazie occidentali, per aprirne uno nuovo dalle enormi opportunità in un mercato libero globale che, grazie ad un connubio tra occasioni redditizie di investimento “produttivo” e finanziarizzazione, ha rivoltato come un calzino le strutture politiche e di classe “localizzate” nel “vecchio mondo”.

Ne è derivata una nuova “razza padrona globale”, sempre più limitata e sempre più ricca che ha saputo gestire il consenso delle classi sociali occidentali impoverite, con lo strumento finanziario del debito, pubblico e/o privato, a sostegno dei consumi. E’ quello che il sociologo Mauro Magatti chiama il modello neoliberista di crescita “finanziarizzata e consumeristica”.

E contemporaneamente si è venuta affermando una nuova governance dell’intero mondo con un mix di poteri economici sovra statali e con il rafforzarsi di “imperi” tra loro concorrenti in gara per una nuova leadership mondiale.

Ma i debiti prima o poi si pagano e la finanza degli algoritmi non è stata in grado di gestire il rischio, come è emerso nel 2008. Malgrado i drogaggi delle economie e disponibilità finanziarie infinite pronte a correre dovunque, dieci anni non sono bastati a dimostrare che il mondo potrà riprendere la sua marcia gloriosa di crescita. E quasi nessuna proposta politica vincente può ormai più affidarsi ad un mercato libero illimitato, come quello sognato e disegnato nei vari round del WTO.

Tutte le coperte sono corte, anche se in alcuni casi sembrano fatte su misura per permettere forme di limitata espansione a chi sa gestirne alcune caratteristiche, come nel modello tedesco, o può permettersi di guidare prospettive nuove di “governo del mondo”, come nel caso cinese.

Ma laddove gli equilibri non possono essere mantenuti (anche con forme di autoritarismo) si apre la prospettiva di come “tirare da una parte o dall’altra la coperta disponibile”. I neo sovranismi nascono dalla convinzione di poter escludere “nemici e concorrenti” in maniera che il proprio sistema ne guadagni in prestazioni a danno di altri.

Ma nessuno coerentemente rinuncia alla “economia politica” ed ai suoi dogmi, soprattutto al riferimento alla “crescita” come idolo da cui tutto dipende. Ma ormai, caduta l’illusione della saggezza del mercato, diventa evidente che questo processo è un non senso che può reggere solo là dove la forza permetterà a qualcuno di vincere ai danni di qualcun altro. Non si tratta solo di attivazione continua di possibili focolai diffusi di guerra che caratterizzano l’attualità come non mai prima, ma anche della perdita di autorevolezza e di sbocchi positivi per quei limitati momenti di confronto internazionale finalizzati a risolvere problemi decisivi per il futuro del pianeta come la questione climatica.

Nessuna delle due visioni di globalizzazione che stiamo vivendo, sia quella del neo liberismo che quella dello scontro tra autoritarismi, ha in sé potenzialità positive di risposte per l’umanità. Solo la revisione delle basi della economia politica misurata dalla crescita illimitata e un modello di rapporti tra comunità non più basata sull’affermarsi di pseudo sovranità statali e nazionali può cominciare ad aprire nuove prospettive.

In realtà quello che stiamo vivendo in questi anni (in forme diverse, spesso non facilmente confrontabili tra loro) è proprio una società occidentale che vive nella prospettiva della “decrescita”, intesa nella sua accezione più logica che è quella di capire che esistono dei limiti all’accumulazione individuale e collettiva di beni di consumo, e che l’obiettivo dell’umanità dovrà prima o poi rivolgersi più agli aspetti qualitativi che a quelli quantitativi. E le comunità del futuro dovranno ricavarne modalità di interpretazione con idee di “riorganizzazione calibrata e qualitativa” dei rapporti tra economia, frammentazione sociale e capacità di interpretazione politica.

Le mutevoli forme di capitalismo susseguitesi negli ultimi cinque secoli hanno sempre saputo tirare fuori qualche nuovo “coniglio” dal cilindro. La scoperta delle Americhe, i commerci con l’Oriente, la rivoluzione industriale, la virtualità monetaria e finanziaria. Oggi il salto tecnologico della digitalizzazione, dei big data e degli algoritmi parrebbe promettere una nuova strada. Ma senza riduzione degli impatti materiali non riusciremo più a consegnare un pianeta praticabile alle prossime generazioni.

Chiamiamola come si vuole, nuova economia del limite, “prima la sostenibilità” (dopo non ci sono più né l’America di Trump né l’Italia agli italiani), ma cominciamo a porci l’obiettivo di ridefinire un nuovo legame tra economia, società e politica.

 

Il disastro politico italiano

La campagna elettorale italiana è stata una prova evidente del gioco dell’assurdo che viene praticato. Si chiede e promette contemporaneamente una ritrazione dello Stato (le “riforme”) ed un aumento delle sue prestazioni in ogni direzione possibile a garanzia della “insicurezza” dei cittadini. I meccanismi comunicativi ci mettono del loro ma l’impressione di fondo è un rumore sgradevole provocato da una miriade di tensioni individuali alla ricerca di messaggi che soddisfano il bisogno di sfogare rancore e rabbia. In un quadro dove tutti sanno che la praticabile azione di governo di domani sarà completamente altro di quanto si promette in campagna elettorale.

E’ forse una pura coincidenza lessicale ma il rimbombo putrefatto della campagna elettorale mi ha fatto venire in mente il titolo del romanzo di Céline “Viaggio al termine della notte”. Testo che racchiude, nel suo scorrere indescrivibile di volontà di autodistruzione, l’angoscia e il delirio della prima metà del secolo scorso. Tutto il disordine di avvenimenti storici ed individuali opprimenti ed esasperati, trattati con un linguaggio rotto e talvolta indecifrabile. Ma, dopo la notte venne il giorno.

Con la fine della II guerra mondiale e il crollo dell’idea coloniale il mondo cominciava ad offrire altro: perlomeno il “welfare” e il ’68. Due nuovi inizi verso il benessere e la libertà.

2018-2020 tutto finito? Assassinato l’uno e tradita l’altra!

Una nuova notte incombe, come da tradizione, guerre, imperi, colonie, schiavitù, povertà, nemici! La storia e l’economia devono muoversi e inghiottire i convogli della disperazione. E chi urla di voler difendere la “tradizione cristiana” come marchio d’Europa allo stesso tempo si aggrappa ad una proposta di “flat tax” che null’altro può essere che la distruzione di ogni visione di solidarietà sociale.

Mi domando: c’è qualche treno in partenza che attraversa la notte ed ha, almeno in un ipotetico orario, un arrivo agli albori dell’alba?

Se dovessi basarmi sui suoni e sulle grida elettorali del sistema politico italiano direi proprio di no! La politica non sta più qui di casa.

Ma un nuovo inizio deve essere possibile! Cerchiamolo altrove, più vicino alle nostre prossimità. Ritiriamo le deleghe e prepariamo una nuova stagione di autogoverno ed autonomia. Ricostruiamo il “comune” e, perché no, cacciamo i mercanti dal tempio del territorio.

Il Patto per l’Autonomia, qui nel nostro angolo tra Alpi e Balcani, non sarà il massimo ma almeno è una speranza. Per cominciare!

Non commento i risultati elettorali e devo ammettere che, prigioniero del considerare il diritto di voto come una riserva strategica a cui non si deve rinunciare, ho messo anch’io la scheda nell’urna. Ma credo che il rifiuto del terreno in cui si è svolta la campagna elettorale italiana con i suoi diversi attori sia un necessario atto di preservazione della salute mentale del cittadino e che sia importante resistere alle sgradevoli offerte del sistema del marketing politico. C’è comunque chi ha vinto al nord, chi al sud e chi ha “pareggiato” al centro. E naturalmente non mi riferisco alle tradizionali sinistre di fatto scomparse.

I prossimi mesi vedranno una convulsa fase di ricerca di spazi truccati di governabilità ma il tema di fondo che emerge è quello dell’esistenza ormai di tre Italie profondamente diversificate tra loro in termini sociali ed economici e che ogni tentativo di ricondurle ad una centralizzazione di comando non può che essere destinato al fallimento.

 

Parte II

Ma può esserci un nuovo diverso inizio?

La domanda che mi interessa è: ci sono segnali anche minimi che questo “crepuscolo” della democrazia italiana possa in lontananza avvertire la possibilità di un “nuovo inizio” della politica come strumento dialettico che agisce tra economia e forme di rappresentanza sociale, rifiutando di prendere atto che ormai esistono solo ex cittadini diventati consumatori in procinto di essere totalmente inquadrati come fornitori di big data?

Da tempo ho individuato questo “nuovo possibile inizio” nella de statalizzazione della democrazia. E la speranza sta nel passare dal “crepuscolo della democrazia italiana” a esperienze politiche di auto organizzazione di comunità che si riscoprono nella loro utilità per sé e per gli altri.

Ma prima è meglio dare una occhiata al futuro che una nuova fase di rilancio del capitalismo sembra prometterci.

 

La rivoluzione digitale e il prossimo ciclo di espansione capitalistica 4.0

I lettori critici del capitalismo moderno si dividono in due categorie. Quelli che partendo dall’analisi dei cicli storici ne derivano la convinzione che il modello capitalistico sia una specie di araba fenice, capace di rinascere in forme e luoghi diversi dopo l’evolversi di crisi che ne sembravano dover distruggere le basi, e quelli che ritengono superati ormai i limiti fisici dei processi di espansione, soprattutto produttiva, e ne derivano la convinzione che non c’è più spazio per una civile evoluzione e che quindi o si imbocca una strada antagonista o si finisce nella barbarie.

Dentro questo dibattito ci sta anche la convinzione della insopportabilità di ulteriori fasi di divaricazione dei redditi e dei patrimoni (a partire dai segnali lanciati parecchi anni fa da Piketty ed oggi dato consolidato generale) e quindi della probabilità crescente di fatti storici riequilibratori. Tra questi, anche in presenza della deterrenza nucleare, la guerra è comunque una opzione della politica ed i soggetti internazionali che possono permettersi di praticarla, magari per delega, sono in aumento.

Ma la opzione tecnologica fondata sulla “invasione” digitale al momento appare prevalente ed in grado di assorbire tutte le tensioni nelle dinamiche economiche che da essa possono emanare. Emerge peraltro sempre più il conflitto sugli eventuali limiti di sovranità da applicare in termini di controllo proprio alle potenzialità delle nuove tecnologie. Cina e Russia guardano giustamente con sospetto a quanto proviene dalla Silicon Valley.

Su tutto aleggia l’interrogativo sul significato economico a medio termine della rivoluzione digitale e dell’invasione di nuovi “prodotti” immateriali con “imprese globali” che grazie a questi prodotti sono in grado di divenire il centro del controllo delle economie mondiali.

Il mercato digitale è un mercato doppio in grado di volgersi ugualmente sia alla offerta che alla domanda. Da un lato permette di governare ogni scambio materiale e offre opportunità a chiunque sia in grado di accedervi con intelligenza. Dall’altro sembra aver finalmente tradotto in realtà il sogno classico del liberalismo capitalista: ci offre al miglior rapporto qualità prezzo tutto quello di cui abbiamo bisogno.

Per la verità decide anche quello di cui singolarmente ognuno di noi necessita. La società della tecnologia dei dati è in grado di sapere perfettamente i nostri desideri, spesso ce li anticipa ed è in grado di formare le imprese “innovative” che ce li soddisfano.

Può essere comodo che Amazon mi indichi i libri che devo comprare o che qualcuno mi offra una casa per le vacanze proprio nel posto dove vorrei andare. E tutto ciò può essere moltiplicato all’infinito.

Non sappiamo se il futuro sarà completamente racchiuso in questo schema ma certo qui ci sono ottime potenzialità di reddito e di costruzione di impresa. Magari fa un po’ impressione pensare che la mia futura assicurazione sanitaria (che sostituirà i servizi dell’attuale garanzia pubblica) sarà collegata a sensori che misurano istante per istante alcuni parametri di salute e li trasmettono ad un algoritmo per tradurli in costo del premio di assicurazione. Ma l’uomo in definitiva si abitua a tutto.

Probabilmente il capitalismo digitale sarà oggetto di scontri per l’egemonia ed il controllo, anche perché spesso dimentichiamo che dietro comunque c’è una infrastruttura fisica che non può scomparire e la cui gestione diventerà sempre più l’oggetto di scontro per il potere. Ma certo dentro questo nuovo modello di sviluppo capitalistico la nuova società di consumatori che si profila, magari pienamente sazi e soddisfatti, liberati dal peso del lavoro e retribuiti in maniera automatica per sostenere i cicli di espansione, non rappresenta certo una evoluzione totalmente desiderabile della specie umana.

 

Il possibile incontro tra la green economy e la rivolta morale e materiale delle società di mezzo (green society)

Alcune critiche alla attuale deriva del rapporto tra economia e società sono in corso e non provengono solo da chi maggiormente subisce i danni nelle proprie occasioni di vita. Si tratta per lo più di una reazione di intelligenza  e di rifiuto delle catene di comando che sembrano prevalere. Sono in particolare reazioni riferibili a quell’ampio spazio di opinione pubblica e di conoscenza istruita che sempre più si pone il problema della sostenibilità per il nostro pianeta a causa degli esponenziali trend di crescita di consumo materiale a cui è esposto.

Questi comportamenti vengono ormai comunemente classificati con il termine piuttosto abusato di visione “green”. Si tratta di imprese, comunità locali, cittadini singoli che vengono coinvolti in sistemi di produzione attenti al clima ed al consumo delle risorse non rinnovabili. Ne nascono comportamenti sociali e disponibilità individuali ad azioni ed a consumi che possono produrre concreti risultati di miglioramento della vita e delle qualità del proprio territorio.

Sembra così poter verificare l’esistenza di uno spazio in cui l’impresa pur continuando a fare business aiuta l’uomo a pensarsi come comunità solidale  ed a uscire dalla logica della “solitudine competitiva”.

Ed accanto alla moltiplicazione delle imprese della green economy, la novità degli ultimi anni è stata quella dell’affermarsi della presenza anche di esperienze di cittadini tese alla risocializzazione verso obiettivi, non prettamente economici, di riappropriazione dei territori e dei suoi beni materiali ed immateriali.

Alcuni autori, in particolare Cogliati a partire dalla esperienza di Legambiente, ha cercato di organizzare una lettura completa di quanto si sta sviluppando in Italia ed ha definito con il termine di “green society” una miriade di realtà che si caratterizzano per una forte volontà di incidere con una concreta azione collettiva su particolari situazioni ambientali e territoriali. E’ una nuova “società” che riscopre autonomamente i valori e le potenzialità del territorio e che vi agisce direttamente.

Tutto questo sta aprendo un nuovo livello di scontro sul concetto di “valore” e sulla necessità politica di privilegiare valori d’uso rispetto ad economie espansive basate sulla costruzione e moltiplicazione di valori di scambio. Un territorio vale non per quanta IVA in esso si produce ma per i valori d’uso che ne permettono il godimento. E questo, per alcuni analisti, può rendere addirittura più “competitivo” il territorio stesso.

Si tratta quindi del proporsi di un nuovo paradigma che misura un’altra “crescita”, il cui cuore è di carattere qualitativo. Non sfuggono gli elementi di solidarietà di questa visione come quelli di carattere ultra generazionale, e c’è da domandarsi se la visione antropocentrica delle culture e religioni occidentali non costituisca una remora limitativa ad una visione meno materialista.

A causa degli ormai evidenti limiti di bilancio, il processo di ritrazione dello stato da molti possibili spazi di “welfare” o dal soddisfare semplici necessità sociali del territorio viene inquadrato istituzionalmente verso iniziative del “terzo settore” nel tentativo di convogliare gli aspetti solidaristici delle relazioni umane in processi utili a lenire le conseguenze del dissolvimento di servizi pubblici. Ma dietro a questa ritirata sta in agguato un mercato pronto a cogliere ogni occasione e magari a selezionare le disponibilità individuali a trovarvi delle risposte qualitativamente differenziate.

I territorialisti, mi riferisco a Magnaghi e Becattini, quando parlano di “coscienza dei luoghi” propongono la lettura di un movimento non finalizzato alla presa del potere ma alla “progressiva vanificazione della presa dei poteri esogeni”. Il territorio può trovare in sé le relazioni e le conoscenze che permettano di scegliere una propria via di “progresso” ma deve poterlo decidere in maniera autonoma.

La capacità di auto organizzazione dei cittadini non deve essere considerata un rattoppo momentaneo alla debolezza pubblica in attesa che il mercato vi provveda. Questa “società di mezzo” è una risposta antagonista lucida non solo al singolo bisogno ma è proprio una risposta “politica” ed economica al necessario conflitto con la invasione da parte del mercato di spazi rivolti a funzioni di cura, coesione sociale, conoscenza, creazione intellettuale, non ancora immediatamente inquadrabili in oggetti di consumo.

Ho provato a fare mente locale su esperienze che fisicamente si vedono crescere nella realtà del Friuli. E non sono poche, anche in ambiti di contrasto con le modalità prevalenti del rapporto tra economia e territorio. Il “patto della farina del Friuli di mezzo”, l’applicazione concreta di economia circolare di “Maistrassà” di Gemona, le nuove aziende agricole di giovani che cercano una nuova vita in terre marginali, gli orti urbani, ma anche la centenaria attività della SECAB (cooperativa di produzione elettrica), e la lotta per il riconoscimento delle proprietà collettive in una nuova prospettiva di servizio per le comunità, sono un segnale inequivocabile di un orizzonte che si sta aprendo. Sul piano sociale l’elencazione potrebbe continuare ma mi limito ad una iniziativa particolare quale quella di “vicini di casa” che opera per rispondere alla domanda di abitazioni di famiglie immigrate in una logica di seria integrazione.

La “green society” di Cogliati non può essere pensata come una nuova forma di espressione dei corpi sociali intermedi nel loro tentativo di condizionare politiche statali, cose in passato svolte da organizzazioni quali i sindacati, le rappresentanze di categorie, od anche le forme ideologicamente orientate di associazionismo. Qui siamo ormai fuori da un riferimento statale e dentro una aspirazione di vivere in libertà esperienze direttamente significative per la propria qualità di vita e profondamente radicate in una specifica realtà fisica territoriale.

Ed è qui che forse questi momenti di “nuova comunità” potranno trovare anche forme di riferimento politico ed istituzionale.

C’è probabilmente un limite culturale sia nell’avanzamento di percorsi di green economy, che talvolta peraltro appaiono prigionieri del paradigma tecnologico come risolutore dei problemi, sia nelle esperienze di green society dove la concretezza della prossimità può essere vista esaustiva nella comprensione di un proprio ruolo civile e sociale. Forse ci manca la capacità di abbracciare l’intera umanità nel quadro di un nuovo umanesimo che non escluda nessuno in qualsiasi parte del mondo si trovi. Il messaggio di papa Francesco ci invita proprio a questa riflessione ed a ripensare il rapporto tra economia e politica tenendo conto di quei miliardi di esseri umani che oggi appaiono tagliati fuori da ogni prospettiva.

Se antagonismo ai modelli prevalenti può essere costruito non può trascurare chi oggi non ha alcun diritto concreto di futuro.

 

I segnali concreti che il territorio ci invia. Le nuove catene di valore non specificatamente monetarie.

Credo che sia sostanzialmente inutile seguire le agonie dei sistemi politici degli stati nazione “occidentali”, ed europei in particolare, nella loro trasformazione da momenti di organizzazione di interessi e culture sociali, a costruzione di un puro mercato dei voti da allettare con offerte spettacolari e luccicanti.

L’esistenza di novità sociali come la descritta “green society” stimola a cercare l’esistenza di una domanda politica che si senta attratta da una progettualità in grado di dare risposte concrete alle esigenze di fondo di strati maggioritari delle nostre società.

Quale è la eredità fondamentale lasciata dal trentennio neo liberista (20 anni di sviluppo + 10 di crisi)? Una redistribuzione ingiusta delle ricchezze e dei redditi, spacciata come base necessaria per mantenere e rilanciare il percorso di “crescita” indicato dalla economia politica che governa i destini del mondo. Solo l’occasione di profitto può spingere chi detiene le leve finanziarie ad investire per mantenere in moto i sistemi di produzione.

Oltre a produrre bisogna che gli individui comprino. Lo schema “economico culturale” urgente è caratterizzato dalla ricerca di disponibilità che permettano di acquisire i prodotti pronti a soddisfare tutte le esigenze individuali reali e indotte. La “crescita” globalmente si alimenta anche di nuove quantità di consumatori che l’allargamento del sistema può inserire. Nel breve periodo di almeno un miliardo potenziale tra indiani e cinesi.

Ma il restringersi degli spazi retributivi e la crescente divaricazione nella distribuzione delle ricchezze può creare condizioni di rigetto dello stesso progetto economico complessivo centrato sul consumo individuale e dei meccanismi di definizione ed attribuzione di “valore”. Si possono così creare delle condizioni di necessità che si accompagnano alle forme di rifiuto espresse da settori “illuminati” della società nei confronti dei valori di scambio imposti dal mercato.

Cominciano ad esprimersi “catene di valore” che, nella loro dimensione “qualitativa”, meglio rispondono ai bisogni di comunità per dare risposte alle esigenze di vita, senza entrare nella spirale di attribuzione di valori di mercato per svolgere le medesime funzioni.

E’ da qui che si può pian piano intravvedere una nuova alba per la politica. Nella capacità di accompagnare la spontaneità delle iniziative che recuperano la dimensione della comunità locale ad una azione di consolidamento e strutturazione dei legami che ne assicurino una continuità. E che, attraverso la costruzione di poteri consapevoli dell’importanza anche materiale di tali esperienze, sappiano difenderne le caratteristiche rispetto ad aggressioni esterne: o sappiano costruire relazioni esterne in grado di consolidarne le caratteristiche costitutive.

Un percorso di nuova democrazia può oggi partire dalla prossimità territoriale dei bisogni, favorendo la continuità delle iniziative che a questi bisogni sanno rispondere ma anche organizzando strutture che ne sappiano rappresentare la valenza politica.

Non partiamo da zero e la stessa realtà del Friuli, grazie alle sue diversità territoriali ed identitarie (anche di carattere linguistico) ed all’attivarsi di molte esperienze significative segnala dei percorsi praticabili.

A mio parere sono questi (ma probabilmente non soli) alcuni ambiti decisivi per una condizione di vita più umana, dove sia possibile liberarsi dagli imperativi consumistici, possibilmente sfuggendo al governo della gestione dei dati e degli algoritmi che li organizzano per offrirli al mercato:

– le condizioni per una gestione attiva dell’invecchiamento e della salute nella capacità di integrare e controllare gli spazi di normalità che il territorio può permettere in parallelo ad istituzioni di cura funzionali e non escludenti;

– valorizzazione delle iniziative di sostegno alla infanzia non solo attraverso il sostegno a servizi che possano facilitarne la gestione da parte delle famiglie, ma proprio come identificazione di una comunità locale che sa dialogare e mettersi in relazione con l’infanzia stessa come momento centrale della sua vita;

– la realizzazioni di supporti a carenze di carattere sociale, sia per situazioni di esclusione che di povertà, in grado di avvertire i rischi di isolamento e combatterli con iniziative comunitarie;

– il controllo qualitativo del proprio ambiente di insediamento con riferimento alla valorizzazione della qualità dello stesso ed al governarne le condizioni intrinseche di sicurezza;

– la costruzione di percorsi di aggiornamento culturale in un quadro possibilmente correlato alle istituzioni di formazione, apprendimento ed istruzione del territorio. Ed allo stesso tempo l’attivazione di supporti comunitari alla formazione scolastica ed al superamento di difficoltà connesse alle differenze;

– la costruzione di momenti di aggregazione identitaria e di costruzione di conoscenze che permettano di sperimentare spazi di democrazia extra istituzionale nei confronti di processi decisionali che interessano la comunità;

– la collaborazione nella gestione di “beni comuni” in grado di dare risposte economiche alle stesse condizioni di vita (in senso qualitativo e quantitativo) non ottenibili da meccanismi di pura “competitività individuale”

– la costruzione di “beni comuni” come momento di riconoscimento di sovranità alternative di carattere collettivo e di autonoma ia culturale.

E’ sostanzialmente questo il terreno di ricostruzione di una soggettività politica che, a partire dal territorio sia in grado di determinare nuovi modelli di cittadinanza singoli e comunitari.

 

Per una repubblica europea

Ritenere che un nuovo inizio per una società più giusta non possa avvenire a partire da una continuità con il pensiero politico ed economico occidentale non vuol dire che ogni tentativo di costruzione di nuovi paradigmi di rapporto tra economia, società e istituzioni (e rappresentanze) politiche sia inutile ed improduttivo alle nostre latitudini.

Il tema di fondo sta nel sapersi liberare dalla maschera soffocante degli stati nazione e dal considerare irrinunciabile la condizione materiale della “crescita”.

La “crescita” è sottoposta sempre più ad una critica di massa e come spiegano Sloterdijk e Papa Francesco sono in molti a voler riprendere il controllo della nave spaziale in cui viaggiamo prima che si schianti in qualche oscuro luogo dell’universo.

La scomparsa dello stato nazione come possibile interlocutore politico di un nuovo rapporto dialettico tra la evoluzione del capitalismo, compresa la sua avveniristica avventura digitale, e le capacità riorganizzativa di aggregazioni sociali di territorio, non può fare a meno di riferimenti istituzionali che diano comunque respiro ad una riacquistata dimensione democratica delle rappresentanze territoriali.

Sta qui una forte ambiguità e falsità da dirimere nel dilemma che Fabbrini continua a proporci tra la nuova Europa di Visegrad e quella ideale di Ventotene. E’ la stessa che ci è stata proposta dagli strateghi del PD con la lista politica satellite di Europa e la dignitosa figura storica di Emma Bonino. Il nostro antidoto ai malanni del disfacimento degli stati nazione non sarebbe altro che la “formula magica” degli Stati Uniti d’Europa.

Ma sono proprio gli stati che costituiscono un ineludibile blocco alla nuova dimensione che sembra promanare dallo stesso “storico” discorso tenuto da Macron alla Sorbona il 27 settembre 2017. Costruire una Europa più coesa a partire dalla zona euro, ponendo al centro delle politiche comuni la sicurezza, la difesa, la politica estera, la transizione ecologica e la guida della rivoluzione digitale, non basta se non si travolge la piramide che vede alla base gli interessi delle strutture politiche ed economiche di oligopoli che connotano gli attuali stati nazioni.

Interessi che oggi si riflettono continuamente in ogni momento decisionale della stessa Unione Europea, secondo rapporti di forza consolidati, e ne connotano la stessa struttura tecnocratica e burocratica.

L’Europa è necessaria, ma in essa devono trovare riferimento direttamente le comunità, le città, i territori della ruralità, ed i cittadini come soggetti di un diritto ad una tutela civile e sociale, ed anche come portatori di innovazione nelle relazioni tra diversi. Nulla degli attuali sconquassi che coinvolgono ampie zone d’Europa, dalla Catalogna alle Fiandre, alla Corsica, al Veneto, alla Baviera, potrà trovare risposta se non da una rifondazione repubblicana dell’Europa stessa che sappia con intelligenza riassorbire le velleità sovraniste, comunque mascherate, dei singoli stati per dare spazi dialettici ad una molteplicità di soggetti non riconducibili a schemi precostituiti.

E’ questa la visione che ho trovato nel “Manifesto for the founding of a European Republic” di Ulrike Guérot e Robert Menasse, oggetto anche di un discorso presso il Parlamento Europeo in occasione della celebrazione del 60° anniversario del trattato di Roma, tenutosi il 21 marzo 2017 a Bruxelles. Ed a questa visione mi piace fare riferimento.

febbraio-marzo 2018

 

* Giorgio Cavallo, nato a Gorizia nel 1942, ingegnere elettronico, è stato per quindici anni consigliere di opposizione nella Regione Friuli Venezia Giulia e successivamente per dieci anni Assessore all’Urbanistica ed alla Mobilità in Comune a Udine. Negli intervalli ha vissuto intensi periodi di partecipazione ad attività associative e a collaborazioni su temi territoriali ed ambientali. Attualmente dispensa con una certa continuità ad amici e a qualche testata per lo più virtuale commenti sui fatti della realtà friulana secondo una prospettiva che ironicamente definisce di “geriatria rivoluzionaria”.

 

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