Sindrome da rivincita?
27 Dicembre 2016Non c’è neve, ma occorre parlarne…
2 Gennaio 2017A distanza di quarant’anni non possiamo avventurarci nel raccontare una situazione identica a quella. Quella storia di attivazione popolare può però aiutarci a capire in che modo orientare le scelte che siamo chiamati – come comunità tutta, nella migliore delle ipotesi – a compiere oggi su quello stesso spicchio di città, destinata nei prossimi anni a una radicale quanto ancora indefinita trasformazione. Il contesto di partenza ha qualche similitudine. Grandi spazi vuoti (più di 5.000 mq disposti su più piani, infinitamente frazionati e difficili da connettere tra loro) e l’ambizione dell’amministrazione comunale di valorizzare un patrimonio immobiliare e sociale da troppo tempo in stato di abbandono. Una condizione che – senza l’accelerazione data dall’emergere recente di nuove linee di finanziamento per la riqualificazione, sia a livello locale che nazionale – aveva trasformato il dibattito progettuale in polemica politica, portando quasi a saturazione la riflessione riguardante la destinazione di una superficie così importante (per dimensione e opportunità per il futuro) del tessuto urbano.
A luglio 2016 si è iniziato a ragionare (non senza qualche incomprensione di metodo e di merito) sul recupero dello stabile che ospitava la Mensa Universitaria, dentro il quadro dei fondi stanziati dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri sul piano periferie. Un’investimento da 18 milioni di Euro, in attesa di conferma proprio in questi giorni. Ora lo sguardo è rivolto verso il corpo di quella che è stata per lungo tempo la Facoltà di Lettere. Sicuramente un’ulteriore cospicua iniezione di liquidità. Messe insieme, queste due azioni rappresentano uno scatto deciso rispetto alla ri-definizione di un’area centrale della città rimasta (causa lo spostamento di alcune funzioni altrove e i costi proibitivi di attivazione per il recupero) priva di identità e di utilizzo. Si apre quindi uno scenario affascinante nel momento in cui – questa è l’idea avanzata dall’amministrazione – si scelga di conservare, e se possibile rafforzare, la connotazione culturale e comunitaria dello spazio e parallelamente di immaginare che la progettazione e la gestione degli stessi avvenga con il coinvolgimento dei cittadini e delle cittadine.
Rischiando di sembrare ripetitivo nell’affrontare questi argomenti, trovo che sia importante segnalare alcune questioni che potrebbero/dovrebbero diventare decisive per la buona riuscita dell’intrapresa.
I processi partecipativi. Praticarli davvero non è per nulla semplice. Costa sacrifici e comporta dosi massicce di pazienza. Annunciarli senza poi metterli davvero in atto è la strada più semplice per annullare il ruolo della cittadinanza e – di conseguenza – renderla diffidente di fronte a successive proposte di attivazione. Una call per idee può essere un punto di partenza ma senza la descrizione dell’intero processo (tempi certi, modalità di partecipazione e selezione, componenti commissione e gruppo di lavoro, chi può partecipare – chiunque? minorenni? -, step successivi, modalità di pubblicazione e pubblicazione del materiale raccolto, ecc. ecc. [grazie Riccardo Acerbi]) il tutto rimane sospeso dentro un quadro assolutamente incerto e non accogliente per chi volesse – per passione, competenza professionale, interesse imprenditoriale, senso civico – essere della partita. I processi, esiste letteratura sterminata sull’argomento, non sono un feticcio metodologico ma condizione decisiva per la realizzazione di buoni progetti di riqualificazione urbana e culturale.
La governance del modello gestionale. Anche solo da una visita sommaria si capisce che uno dei temi più rilevanti dell’intero progetto riguarderà la gestione di una struttura dalle dimensioni considerevoli e dall’architettura complessa e frammentata. A un primo sguardo non appare semplice l’opera di riempimento di ogni singolo slot disponibile (non basterà la somma delle idee progettuali che emergeranno dalla call) nell’ipotesi di rendere l’intera struttura vissuta nell’arco dell’intera giornata e delle ore serali. Proprio per questo grande rilevanza – insieme alla comprensione della cornice di senso dell’intera operazione, al collegamento con l’ecosistema culturale esistente, all’idea di “città culturale” cui il progetto vuole contribuire – assumerà la definizione del modello di governance. Decisiva perché – e qui torna il riferimento storico all’occupazione dell’estate del 1975 – potrebbe indirizzarsi verso una gestione diffusa e collettiva, recuperando modelli della tradizione mutualistica del territorio trentino quali l’uso civico, piuttosto che agire dentro i confini del più classico bando rivolto a soggetti associativi o cooperativi, tra loro in competizione. L’esempio dell’Asilo a Napoli può aiutare a capire di cosa parlo, senza per questo assumerlo come modello unico a disposizione.
La cultura per lo sviluppo di comunità. Date per scontate le potenzialità di un’area come quella presa in esame (ex Facoltà + ex Mensa + Auditorium + Palestra + Parco, tutto nel pieno centro della città) l’aspetto su cui sarà fondamentale interrogarsi è il ruolo che la cultura ha – e può avere – nei contesti urbani. Non più e non solo “produzione” per il/un pubblico ma strumento ibrido capace di favorire la coesione e l’inclusione sociale, lo sviluppo imprenditoriale, l’abilitazione di competenze diffuse, la validazione di modelli innovativi e creativi di uso dello spazio pubblico. Vien da sé che se il complesso ex Santa Chiara – per dimensioni e collocazione geografica – riuscisse almeno in parte a diventare punto di riferimento per queste grandi sfide dedicate allo sviluppo di comunità, l’intera città potrebbe trarne giovamento. Il ruolo di questo nuovo grande contenitore culturale non dovrà essere inteso come accentratore di ogni azione del territorio ma come facilitatore/abilitatore di un ecosistema culturale cittadino (o addirittura provinciale) che per il momento non appare sufficientemente vitale e cooperante. Utile a questo riguardo è tutto il ragionamento che si muove attorno alla figura dei community hub (qui una descrizione più precisa dell’idea).
Quella qui proposta è una traccia di ragionamento che non vuole (e non può) essere esaustiva, ma intende rivolgersi a tutti coloro volessero condividerla – in parte o in toto -, arricchirla, migliorarla. Entro il 13 gennaio si potranno inviare all’amministrazione idee progettuali per lo spazio. Non sarebbe male queste non arrivassero in ordine sparso ma provassero ad aggregarsi – dal basso – in nome di una collaborazione, comunitaria prima che progettuale, a mio modo di vedere assolutamente necessaria in questo frangente. Siamo di fronte – visto l’investimento previsto, le già citate potenzialità pro futuro, la necessità di luoghi di e per la cultura – a una grande scommessa che, richiamando lo spirito del 1975, la città (e in particolare i suoi cittadini) vincerà se saprà occuparsi di spazi abbandonati da trasformare in luoghi occupati da relazioni, intrecci di culture e cooperazione.
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Pensieri in libertà, più che risposte alle domande di Federico. Riprendo una domanda sollecitata dall’incontro sulle tre città (TO-Roma-TN): Trento città museo? Sì, dove non c’è né Stato, né privato, dove “provincializzazione” è il tutto, la musealizzazione può prevedere il ritorno al secondo “centro direzionale”, pensato nel ’75 e stoppato dalla mobilitazione popolare (comandante il Fidel trentino Michele). Per una città ridotta a museo del pubblico un centro direzionale di uffici calza a pennello. Il Muse e i mercatini farebbero da contorno turistico-culturale (punti a favore nella gara per capitale della cultura?). La strada è segnata: anche il timido tentativo degli anni novanta con la “Pantera” (fare dell’area una piccola Oxford con la Facoltà di Lettere a fianco della biblioteca, del’ITC e del centro culturale) rimase un sogno nel cassetto con il “buco Tosolini” come corollario. Oggi pensare ad un dialogo fra Albere e Centro ex S. Chiara, con il viale alberato ai tre portoni, è pura fantasia, con il quartiere di Renzo Piano collettore ormai di tutte le risorse. Uffici, uffici e ancora uffici; ebbero la vista lunga i contadini della dieta di Merano, estensori della Landesordnung: Trento centro amministrativo per uffici, Brixen università e cultura, Rovereto e Bozen commerci. Trento torna così ad essere, con i suoi centri direzionali, una “piccola fabbrica di impiegati” come al sorgere del XX secolo.