Piove all’insù
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di Michele Nardelli
(3 gennaio 2015) La vicenda dei vigili urbani di Roma che hanno disertato il lavoro a Capodanno ha aperto un dibattito molto acceso e questo mi sembra doveroso. Temo però che il confronto non porti ad interrogarsi su quel che avviene nella nostra società, quanto piuttosto ad emettere giudizi morali che in quanto tali rischiano di far seguire ad una iniziale indignazione (e all’individuazione di un eventuale capro espiatorio) un atteggiamento di ipocrita accettazione dello status quo.
La politica (forse sarebbe più giusto dire “quel che ne rimane“), anziché aiutare la società a riflettere sulla perdita di responsabilità che l’attraversa, preferisce cavalcare gli umori e così facendo si scava la fossa. Il governo, a dire che le riforme della pubblica amministrazione vanno fatte per questo, di fatto dando per buona una rappresentazione del lavoro pubblico come si trattasse di un’accozzaglia di mascalzoni;; altri, a chiedere le dimissioni del sindaco di Roma come se quella vicenda fosse riconducibile alle scelte dell’ultimo inquilino del Campidoglio;; altri ancora, a difendere l’indifendibile pur di tutelare i propri tesserati.
Ne viene la rappresentazione di un paese piegato dalla logica del favore, dove la cultura mafiosa è ben radicata nei comportamenti quotidiani del “farsi li cazzi sua“, dove il vecchio corporativismo ha preso le forme del “non nel mio giardino“, dove la politica viene intesa sempre più come ricerca di consenso.
Quando il Censis nel suo ultimo rapporto sulla società italiana descrive “il paese delle sette giare“ parla di questo, di una società frammentata, priva di mobilità verticale, dove ogni categoria – pur in presenza al suo interno di forti potenzialità – vive nella propria dimensione, incapace di comunicare se non a difesa del proprio interesse e di dialogare nella solidarietà.
Se per il Censis le sette giare sono i poteri sovranazionali, la politica nazionale, le sedi istituzionali, le minoranze vitali, la gente del quotidiano, il sommerso e il mondo della comunicazione, queste potrebbero trovare anche altre forme di rappresentazione: il mondo delle corporazioni che si caratterizzano come altrettante caste, grandi o piccole che siano (magistrati, giornalisti, medici, giù fino ai vigili urbani e oltre);; le diffuse espressioni di “interessi in sottrazione“ (ambiente e lavoro, pianura e montagna, città e campagna…);; le appartenenze “post ideologiche“ (le contrapposizioni per cultura religiosa, età anagrafica, orientamento sessuale, appartenenza di genere, legalità ed illegalità…) o peggio ancora di natura razziale.
Tutto questo ha a che vedere con la crisi della politica, ovvero di quella sfera che presiede e norma la dimensione collettiva del vivere in una comunità, globale o locale che sia. E senza la quale ogni contraddizione si dipana nel diritto naturale, quello del più forte.
Un po’ per ciò che è diventata e per il brutto spettacolo che dà di sé, un po’ per la fine delle ideologie otto-novecentesche, un po’ per la pervasività della tecnica ed altro ancora… oggi si pensa che della politica si possa fare tranquillamente a meno. E questo nelle sue molte varianti: il governo dei tecnici, il commissariamento (l’effetto Belgio, 541 giorni senza governo), l’affidarsi a uomini della provvidenza, la personalizzazione della politica, il non voto.
Per nulla estraneo a questo modo di pensare (secondo il rapporto Demos del dicembre 2014, i partiti hanno un indice di gradimento pari al 3% – vedi allegato) è il dato davvero preoccupante del crollo della partecipazione alle ultime tornate elettorali, registrato peraltro in occasione di elezioni regionali o comunali, istituzioni queste che malgrado il netto calo di popolarità ancora mantengono percentuali fra il 20 e 30% di riconoscimento. Questo rapporto ha due facce, che andrebbero lette entrambe: la sfiducia verso le forme della politica ma anche l’involuzione sociale che l’indagine Demos descrive come “solitudine“, una condizione che ha fatto da incubatrice alle pagine più terribili del Novecento.
Voglio dire che la solitudine non è uno spazio vuoto… si riempie invece di paura, invidia, rancore, voglia di rivalsa. Ci vuole poco a trasformarla in aggressività. E non credo sia affatto casuale se in questi giorni mi veniva da associare il comportamento irresponsabile, mix di menefreghismo e di delirio di impunità, dei vigili urbani di Roma e il voltare le spalle dei poliziotti di New York al sindaco Bill De Blasio, colpevole di aver preso la parte dei soggetti più deboli di fronte alla violenza della polizia.
Non proprio un buon inizio d’anno.