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Veltroni e il PD. Quale modello di partito?

di Alessandro Branz *

 Le recenti vicende che hanno animato il Partito Democratico ed il confronto che ha visto contrapporsi Veltroni e Bersani, al di là delle questioni di contenuto e della fondatezza o meno delle critiche “politiche ” rivolte dal primo al secondo (sulle quali non mi soffermo), si prestano ad una serie di riflessioni di natura metodologica, che attengono a come il PD funziona ed a quale modello di partito tende ad ispirarsi. Sono cioè la spia di una malessere diffuso e di una certa strisciante linea di tendenza.

Infatti, se Walter Veltroni ha perfettamente ragione quando afferma, nell’intervista rilasciata a Repubblica il 20 settembre, che “discutere non è dividersi” e che il dibattito interno al Partito Democratico è un bene irrinunciabile, tuttavia le modalità con cui il confronto interno al PD si articola, i tempi del dibattito, nonché le relazioni politiche che si vengono ad instaurare fra una componente e l’altra, fanno pensare ad un partito molto orientato (perlomeno nella visione di taluni suoi esponenti) verso un modello caratterizzato dalla presenza di forti venature leaderistiche e di un processo decisionale che -nel rapporto con la base- tende a svilupparsi “dall’alto verso il basso” anziché al contrario. 

Mi spiego meglio. Innanzitutto il dibattito di questi giorni si è caratterizzato (e non da oggi, purtroppo) per un forte grado di “personalizzazione” delle posizioni e delle proposte messe in campo (Veltroni contro Bersani; Veltroni contro D’Alema; e via dicendo). E’ chiaro che ciò dipende da fattori oggettivi, come la sempre più diffusa caratterizzazione mass-mediatica che la nostra società sta assumendo, secondo una linea di tendenza evidenziata fin dal secolo scorso e che ha influito anche sulla vita e sull’assetto organizzativo dei partiti. Ma non si può negare che il modo in cui Veltroni ha avanzato le sue (pur legittime) tesi avvalori questa linea di tendenza: infatti lo stimolo alla critica ed alla discussione è venuto direttamente “dall’alto”, dal leader e dal suo gruppo di più stretti collaboratori, utilizzando come proscenio (con un  discorso reso pubblico dalle TV) l’occasione offerta dal convegno di Orvieto dell’Associazione LIBERTA’eguale. Non sarebbe stato meglio, in modo più sobrio e meno impattante, partire “dal basso”, dai circoli, coinvolgere gli iscritti e dar vita ad un ampio e diffuso dibattito sui contenuti, di cui poco si parla, attraverso una franca discussione pubblica (la c.d. “arena deliberativa”), con l’obiettivo di incidere (e -perché no?- modificare) la linea politica del partito, senza però dar l’impressione, magari inconsapevolmente, di voler mettere in gioco la segreteria?

In secondo luogo, mi sembra assai rivelatore il fatto che i “veltroniani” abbiano voluto raccogliere fra i parlamentari un numero consistente di sottoscrizioni ad un documento esplicativo della loro posizione (iniziativa alla quale peraltro la maggioranza del partito ha risposto rivendicando l’opportunità di un “voto” in Direzione sulla relazione del segretario). Perché rivelatore? Perché -in sintonia anche qui con un certo modello di partito- questa circostanza evidenzia come l’obiettivo principale sia quello di “contarsi”, “aggregare” le opinioni anziché attivare un processo, magari lungo e difficile, di loro “trasformazione”, promovendo un confronto franco e trasparente, nel corso del quale però i protagonisti siano anche disponibili a modificare le loro posizioni di partenza. In altre parole, l’obiettivo principale sembra essere quello di marcare la presenza di una “minoranza” interna al partito, da contrapporre ad una “maggioranza”, anziché aprire un tavolo di discussione propositivo, al di là delle logiche di schieramento, coinvolgendo in primis quegli iscritti e simpatizzanti che altrimenti rischiano di essere coinvolti solo in occasione delle “primarie”.

Infine, lo stesso ricorso alle firme dei “parlamentari” evidenzia, magari inconsciamente, la predisposizione a privilegiare il partito degli “eletti” rispetto a quello degli iscritti ed alla “membership”. Ora, è vero che anche questa è una linea di tendenza comune ad altre esperienze partitiche, legata al sempre più qualificato ruolo “istituzionale” che i partiti assolvono nelle democrazie contemporanee. Così come non va sottaciuto il fatto che, in quest’ultimo scorcio di storia repubblicana, sembra che i partiti tendano a riacquisire l’antica origine parlamentare (Fini docet), quasi si assistesse ad un ritorno alla logica del “partito di quadri”, per citare una famosa tipologia coniata da Maurice Duverger. Non va però dimenticata la circostanza che un partito come il PD, per ragioni storiche e per gli obiettivi “riformisti” che si pone, non dovrebbe mai far venir meno (o far passare in secondo piano) il collegamento fra quel ruolo istituzionale e la funzione di rappresentanza sociale, che, pur in un contesto diverso dal passato, continua a mantenere un’importanza fondamentale.

Insomma, le vicende di questi giorni rendono manifesti alcuni problemi di fondo, che investono il modello di funzionamento del PD, la sua organizzazione, i rapporti fra i vari attori che lo compongono. Per cui, al di là della buona fede dei protagonisti in gioco e pur segnalando con soddisfazione la positiva conclusione del confronto e la stipulazione di una “tregua”, il problema riguarda, ancora una volta, quale partito si vuole costruire. Nella consapevolezza che dalle sorti del PD dipende anche il funzionamento del più complessivo sistema politico italiano.       

* Alessandro Branz, assessore alla cultura del Comune di Sanzeno, componente dell’Assemblea provinciale del Pd del Trentino

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