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Marco Damilano sul numero del 22 marzo de L’Espresso spiega bene la vivacità di pensiero che siamo tenuti a esercitare, non abbandonandoci all’attesa (che rischierebbe vana) del ritorno a una precedente e non più replicabile – per fortuna – “normalità”.

«C’è un’igiene del corpo che va rispettata severamente, pena la possibilità che a cadere nella malattia siano i nostri cari e poi le più lontane. Ma accanto a questa c’è da serbare un’igiene della mente, un’igiene dello spirito, che significa mantenersi lucidi e razionali di fronte a una situazione che ci mette in gioco come nessuno si sarebbe mai aspettato, che vuol dire rifiutare ostinatamente di recintare il pensiero, di rinchiudere l’anima, per così dire, oltre il corpo. Dobbiamo fare l’opposto di quanto siamo costretti a compiere con il “distanziamento sociale”, orrenda espressione: ovvero avvicinarci, anche se non possiamo farlo fisicamente, contaminarci, renderci meno immuni l’uno dall’altro, farci toccare dagli interrogativi e dalle diversità».

Le sue parole mi hanno richiamato alla mente la bellissima postfazione al meraviglioso pamphlet di Luigi Zoja, Utopie della vita quotidiana (edito da Catelvecchi).

«Credo che alla base di tutto ci sia una passione per la fragilità, cioè per la poesia delle cose. […] Una ricerca spinta nei luoghi più nascosti e assorti, dove c’è senso di provvisorietà, di passaggio, pieni di gente che cammina e arriva ben oltre la meta che si era prefissata. […] Fare piazza pulita delle certezze da quattro soldi, dell’arroganza e dell’altruismo a buon mercato. E arrivare, invece, a quel pozzo profondissimo dove il denaro, il potere, la moda, la retorica, si liquefanno per lasciare spazio a un fiume di domande che, solo, può rendere la terra un luogo ospitale e il vicino un essere attraente del quale si desidera l’amicizia. Abbandonare la frenesia del fare per concedere terreno alla cortesia, alla gentilezza, alle parole dolci e agli sguardi scrupolosi. […] Incamminarsi su sentieri impervi e solitari, schivando l’abusivismo della modernità, arrivando all’unica patria possibile: quella di chi sa di essere gettato sulla terra, con radici deboli e spesso marce, eppure desideroso di dare frutti commestibili a tutti. […] Agire nel quotidiano come se ci si stesse misurando con l’assoluto».

Abitiamo, pur a distanza, il bar degli utopisti.
E invitiamo tutti i nostri amici e le nostre amiche.

«Chi in quel bar decide di passare un minuto o una vita intera per costruire un bel sogno, decide di impegnarsi nelle cose di ogni giorno, fra gli amici e gli stranieri, per andare verso il futuro, quel futuro per il quale prova nostalgia».

 

* https://pontidivista.wordpress.com

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