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Sono un po’ i limiti che sembra di cogliere in alcune opzioni lanciate di recente, mosse dall’estrema fragilità del quadro politico e della classe dirigente. Fragilità che investe, in prima battuta, il Partito democratico: avrebbe dovuto essere l’architrave della coalizione, invece si è ripiegato in un’astiosa campagna di Russia interna della quale non si intuiscono le ragioni e le proiezioni future. L’ultima trincea di guerra è stata eretta tra il vicepresidente della Provincia Olivi e il gruppo consiliare in una logica di personalizzazione estenuante.

 

Il congiungimento con Lorenzo Dellai e una parte dell’Upt, ideale rammendo del vulnus creatosi all’origine del Pd trentino, funziona allora un po’ come ricostituente, senza essere tuttavia risolutivo, perché i ceti politici in trasformazione devono anche saper ripopolare le aride praterie elettorali. E ciò è tutto da dimostrare. Forse è il motivo che consiglia il Patt, partito del pragmatismo ma con echi popolari, di non crucciarsi per il grande rifiuto dellaiano (addio Casa dei Trentini e Partito del Trentino) occhieggiando a quelle aree di consenso rimaste orfane.

 

Certo, è paradossale che l’alternativa a questi percorsi minimamente collettivi sia quella dell’uomo forte. Infatti, se Matteo Renzi ha centrato finora una scommessa, quella di suscitare a destra e sinistra l’attesa di un nuovo inizio, dall’altra è innegabile che sia rimasto l’unico player del sistema: segretario nazionale del Pd, presidente del Consiglio, narratore della contemporaneità, interlocutore unico. In entrambi i casi, all’elettore non rimane che l’atto di fede.

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