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Una via d’uscita dall’escalation

Scenario già visto in altre aree del mondo (come la Corea), che alla fine costringerà le parti a trovare un accordo. Lo scenario alternativo è quella dell’escalation. Sia il rischio di sconfitta da parte della Russia, sia l’invio di truppe Nato per evitare la disfatta dell’Ucraina comporterebbero un salto di scala. Il mondo sta ballando sul Titanic e nessuno sembra avere la chiave della via d’uscita. Si dice: non si può dialogare con Putin. Primo: perché è un criminale che deve pagare per le atrocità che ha commesso. Secondo: perché lui non vuole dialogare, ma solo raggiungere i propri obiettivi.

Queste due affermazioni sono vere, ma da qui non si può dedurre la decisione di rinunciare al dialogo. Se è vero infatti che per dialogare bisogna essere in due, è altrettanto vero che quando c’è una controversia il dialogo comincia non perché esiste già l’accordo (che è ciò che manca) ma perché una delle due parti – spesso con l’aiuto di un soggetto terzo – lavora per passare dal dialogo dialettico (cioè dal conflitto) a quello che Raimon Panikkar chiama «dialogo dialogico».

Il dialogo dialogico non è una camomilla per anime belle. è, invece, un processo arduo, faticoso, incerto che può avanzare solo perché sostenuto da una grande forza morale, una forza d’animo che permette di superare difficoltà insormontabili. Il dialogo dialogico letteralmente è capace di andare al di là di ciò che c’è, lavorando per ridurre passo dopo passo la distanza tra le parti.

Questo processo di avvicinamento, insegna ancora Panikkar, può avvenire solo identificando un punto terzo che non corrisponde né alla posizione di partenza dell’una o dell’altra parte, né al punto medio, a ciò che sta a metà strada. Questo punto terzo è un oltre, qualche cosa che si comincia a immaginare e che avvia un processo aperto che permette ai contendenti di uscire dal gioco perverso in cui si trovano incastrati. In linguaggio politico è l’arte della diplomazia. Che è necessario perseguire se si vuole che il dialogo dialettico (cioè la guerra) non termini solo con la eliminazione di una delle due parti. O con un disastro mondiale.

Oltre a comportare la virtù della fortezza, il dialogo dialogico presuppone il superamento dello schema puro-impuro. Come scriveva Jean Guitton, ciò è possibile quando ci liberiamo dallo schema dualista che contrappone, separandoli, l’amico e nemico, il bene e il male; cioè appunto, il puro e l’impuro. Non perché non ci siano differenze o perché non ci debba essere un giudizio su ciò che accade. Ma perché la realtà è sempre più complessa, contraddittoria, articolata. E perché è proprio nelle pieghe di questa concretezza che si deve cercare e trovare la via che permetta di non schiantarsi nel conflitto totale. Se l’Occidente vuole essere leader del mondo deve saper esercitare questa saggezza.

Riaffermare i princìpi internazionali, condannare l’aggressione, sostenere l’aggredito e nello stesso tempo lavorare attivamente, incessantemente, concretamente per trovare una soluzione che non si fermi allo scontro tra le parti. Tutti desideriamo la pace. C’è la pace imposta dall’aggressore che distrugge l’aggredito. C’è la pace dell’aggredito che distrugge l’aggressore. E c’è la pace che, riconoscendo i torti e le ragioni, la giustizia e l’ingiustizia, lavora alla tela delicata ma fondamentale del dialogo dialogico, costruendo così le premesse di una futura convivenza pacificata. Non si perda tempo. L’invio di nuovi (pochi) carri armati sia l’occasione per prendere ancora un po’ di tempo per fermare quel conflitto che Putin ha innescato e in cui si trova egli stesso intrappolato al pari di Zelensky, ma nel quale rischiamo tutti di finire annientati.

* dal quotidiano Avvenire

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