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Una nuova narrazione per l’Europa. Con Mauro Berruto

In poco più di un mese – a cavallo tra giugno e luglio – l’Europa è stata segnata da una serie di eventi di grande portata, partendo dal referendum sulla Brexit e arrivando fino a Nizza e all’instabilità turca. Nel resto del pianeta la situazione non è migliore. I fatti di Dallas e Orlando negli Stati Uniti, l’attentato di Dacca in Bangladesh e i quotidiani attacchi in Medio Oriente. Cosa ci dice questo tappeto costante di conflittualità e violenza?

Partiamo dall’elenco, che ormai è faticoso da ricordare dentro la sua incredibile sequenza. E’ vero che nelle ultime settimane c’è stata un’escalation di eventi di portata mondiale che semplicemente rimettono per l’ennesima volta al centro l’Europa – intesa come comunità di valori e non solo come unione di Stati e di moneta – a svolgere un ruolo di un’importanza cruciale all’interno di un mondo che è sottoposto sempre di più, in maniera quasi quotidiana, a scosse che sono decisamente preoccupanti. Io credo che la forza, l’impatto che l’Europa può avere forse è stata troppo identificata – o almeno ci è stata raccontata, e parleremo poi di storytelling – nelle sue caratteristiche economiche (per quanto riguarda il mercato unico e la moneta comune) e riscopriamo oggi che è molto più urgente e importante verificare il ruolo che l’Europa deve riconoscere a se stessa sul lato culturale anche dentro il sistema planetario. Le scosse – pressoché quotidiane – oggi riguardano anche altri aspetti delle nostre vite, non solo quelli economici.
Ritrovare la capacità di immaginare l’Europa nella sua bellezza di territorio continentale, un insieme di paesi che hanno esercitato una leadership mondiale dal punto di vista culturale, artistico e politico oltre che economico, è dunque ormai equiparabile a stipulare una polizza di garanzia per un mondo migliore.

Un’interessante intervista a Marc Augè (sul Corriere della Sera, nei giorni immediatamente successivi alla strage di Nizza) poneva l’accento sulla strategia per uscire dal vicolo cieco in cui sembriamo esserci infilati, situazione data “dall’incapacità dell’essere umano di riconoscere sé nell’altro, di rispettare l’umanità in ogni singolo uomo”. Augè ci dice forse che prima di tutto c’è un problema di relazioni?

Sicuramente sì, ed è un problema anche di proiezioni. Leggo in questi giorni un breve testo di Marc Augè dal titolo “Il calcio come fenomeno religioso”. Vi è descritta una bella indagine etnologica che parte da una provocazione: un gruppo di marziani discesi sulla terra si trovano a osservare – durante un periodo di studio – questi eventi collettivi regolati da riti molto precisi che sono le partite di calcio. La mancanza del riconoscimento del sé nell’altro porta a una grande contraddizione. Probabilmente ci piacerebbe un mondo più omologato, un mondo dove trovare la tranquillità di riconoscere nell’altro da noi qualcosa che ci rassicura o dentro il quale ci possiamo specchiare e vedere simili. Non solo non è così, ma non deve essere così. Poiché la diversità è da sempre una forma costante di arricchimento. Tutte le grandi civiltà sono sintesi di diverse anime, un sistema di componenti tra loro non uniformi. Questo vale anche per noi. Purtroppo l’avanzata a livello europeo dei populismi è proprio collegata al fatto che la partita si gioca sulla paura di trovarsi di fronte a qualcosa di diverso che ci viene raccontato come un rischio o una minaccia. In direzione opposta invece rivendico l’importanza e la grande possibilità e responsabilità per il mondo dello sport, dove colui che hai di fronte è davvero potenziale di arricchimento e di miglioramento.

Mauro Berruto allenatore. Quante volte ha sentito suonare l’inno prima dell’inizio di un match in cui lei era sulla panchina della nazionale di volley? Cosa ha significato per lei?

Ho ascoltato l’inno 134 volte, il numero delle mie presenze sulla panchina della nazionale. Sicuramente rappresenta un motivo di grande orgoglio e di grande consapevolezza di rappresentare qualcosa. Dietro c’è tutto il gioco delle differenze tra essere allenatore di un club rispetto ad essere allenatore di una nazionale. E’ come il passaggio dall’analitico al globale. Il club rappresenta una porzione di una tifoseria, di una città, di un quartiere e quindi hai una visione che non può che essere analitica. I tuoi gesti e il tuo modo di stare in panchina, le tue scelte non possono che essere orientate a una porzione del tutto. Rappresentare una squadra nazionale va oltre questa capacità analitica rispetto a quello che hai intorno e si riferisce a una responsabilità che è molto più globale. In quel momento rappresenti un movimento intero, un movimento – faccio l’esempio specifico della pallavolo – che inizia con i bimbi del minivolley e passa attraverso tutte le categorie e i campionati. Direi quindi che la parola che mi viene in mente pensando alla domanda “che significato ha sentire l’inno nazionale che apre una manifestazione sportiva?” è: responsabilità.

Come si può far sedimentare un’identità europea che oggi appare quantomeno in crisi?

Tra pochi giorni inizierà una manifestazione planetaria che sono i giochi olimpici, in cui evidentemente ci sarà il tripudio del nazionalismo e faremo il tifo per gli atleti che rappresenteranno la nostra bandiera. Io dissi però già qualche anno fa di pensare a come sarebbe bello e che significato dirompente avrebbe portare una squadra europea ai giochi olimpici. Credo che questa immagine sarebbe mille volte più potente di qualunque tentativo di costruire un’identità europea che possa passare attraverso architetture economiche o istituzionali. Mi viene da pensare che un ragazzo finlandese che possa tifare una squadra europea di basket nel quale gioca un greco mi sembrerebbe un segnale in questo momento di una grandissima forza, di un grandissimo impatto, per far sì che i cittadini si possano riconoscere dentro un’identità europea – che in questo momento è sottoposta a mille scosse e continua a galleggiare nell’aria senza diventare qualcosa di più solido e reale.

In un contesto sempre più globalizzato e interconnesso come può reggere ancora l’idea di identità rigide, siano esse politiche, etniche, culturali o religiose? Ha un senso ancora il richiamo – oggi tornato molto potente – agli Stati nazionali?

Purtroppo da Altiero Spinelli in poi è rimasto un progetto che è ancora lontano dal realizzarsi. Resta vivissima però l’idea di immaginare gli Stati Uniti d’Europa, partendo proprio dalle differenze che li comporrebbero. Io nel mio piccolo allenando in Finlandia e per tre anni anche in Grecia ho potuto toccare con mano le differenze, riconoscendo uno spread piuttosto ampio anche solo nel fare squadra o nell’intendere la prestazione sportiva. Quest’esperienza è stata la mia ricchezza da allenatore. Se sono potuto diventare – spero – un allenatore di valore è proprio perché ho avuto la possibilità di lavorare in contesti così diversi, che evidentemente mi hanno arricchito ognuno a modo proprio e mi hanno confermato di essere un cittadino europeo, che vive in un continente meraviglioso  anche per le sue molteplici specificità.

Mauro Berruto narratore. Dovevamo vederci di persona alla scuola Holden di Torino per questa intervista. Ha provato a immaginare il suo sequel per la narrazione europea, come proposto dal direttore Alessandro Baricco agli studenti dello scorso anno accademico? In tutta Europa è un fiorire di romanzi apocalittici (Houellebecq, Sansal, lo stesso Arpaia in Italia). Possibile che appaia così sgangherato il continente che abitiamo, tanto da rappresentarlo un giorno sottomesso alla religione e alla cultura islamica e il successivo devastato dai cambiamenti climatici? Non esiste uno storytelling alternativo, non per forza ottimista ma utile a comprendere i contorni di un futuro auspicabile?

L’esperimento della Scuola Holden è ancora in corso. Abbiamo dedicato praticamente tutto questo anno a ragionare su questo grande tema. Viviamo questa epoca raccontata da romanzi appunto apocalittici, che danno una descrizione di un continente frammentato e messo alla prova, sottoposto a dei rischi e a un cambiamento dei propri costumi. Credo che anche le ultimissime notizie di cronaca ci fanno sempre più immaginare come questo disegno terroristico sia mirato a colpire un modo di intendere la vita. Penso alla strage al Bataclan piuttosto a quello che è successo nei giorni scorsi a Nizza. L’idea è proprio quella di attaccare la normalità, la voglia di mettere insieme esperienze quotidiane che noi proviamo ogni giorno. E’ chiaro che deve esserci un modo diverso di raccontare, di costruire lo storytelling di un’Europa intesa come un luogo dove è bello vivere e dove è bello accogliere, perché non dobbiamo dimenticarci che noi italiani nell’Europa non siamo posti in un luogo qualunque. Siamo collocati in un posto che anche per natura geografica è destinato all’accoglienza, e questa particolarità dobbiamo averla ben chiara in testa. Siamo il punto in cui l’Europa si apre verso un’altra parte di mondo e quindi è ancora più importante immaginarci questo sequel, fatto di un racconto del nostro continente come di un contesto accogliente e di un’Italia all’interno di questo contesto in prima fila nel dare realizzazione a questa missione.

Mauro Berruto osservatore sociale. Quali sono le immagini che rimangono di questo europeo francese?

Anche in questo caso ritorno su un tema che già ho affrontato, cioè di quando la forza dell’identità e la bellezza dell’identità, intesa come volontà di dimostrare il proprio patrimonio sociale e culturale, possa diventare anche risultato sportivo. Allora io penso alla bellezza della favola legata all’Islanda. Una piccola isola che ha dimostrato di giocare molto bene a calcio e di saper mettere alla prova grandi nazionali, battendo addirittura l’Inghilterra. Ma più romanticamente mi piace segnalare come siano stati i tifosi islandesi contagiosi semplicemente nel modo di celebrare attraverso un rituale collettivo che è riuscito a conquistare tutti.

Non solo calcio quindi?

Penso al Galles o all’Albania, piccole realtà che sono state davvero capaci con grande gioia – portando un modo di abitare questa grande manifestazione davvero coinvolgente – di contribuire alla riuscita di questo appuntamento sia in termini sportivi che di attenzione mediatica, pur arrivando da piccole comunità e bacini di praticanti e tesserati apparentemente insignificanti.
Mi piace ricordare anche l’ennesima lezione che lo sport ci ha dato durante la finale vinta dal Portogallo sulla Francia. Faccio riferimento alla conferma dell’esistenza di una parte di ineluttabilità che non sarà mai controllabile. E’ il caso del palo colpito dalla Francia al 91° minuto. Un’azione ben fatta dove – compreso l’ultimo tiro – ogni parte era stata svolta in maniera quasi perfetta e dove se la direzione fosse stata diversa per pochi centimetri avrebbe cambiato la storia sportiva dell’Europeo. In quel frangente vittoria e disfatta si trovano a distanza ravvicinata e che si realizzi una o l’altra non dipende solo dalle capacità dei giocatori in campo. Fu così – ed è l’esempio che mi ritorna più forte – anche per i Mondiali del’78, quando la finale Argentina/Olanda arrivava all’interno di un evento calcistico che era la sublimazione della dittatura di Videla in Argentina. Rob Rensenbrink colpì un palo, circostanza che negò la vittoria alla squadra orange lanciando la “seleccion” alla conquista del Mondiale. Si dice che i montoneros fossero pronti a far scattare una rivoluzione contro il regime sfruttando il malcontento dei tifosi argentini nel caso la squadra avesse perso la finale. Quel palo – che portò il match ai supplementari – cambiò addirittura un po’ la storia non solo sportiva.

E del Portogallo campione – a confermare la regola che ogni dodici anni,dopo Danimarca (’94) e Grecia (’06), si verifica una “sorpresa” – che ci dice?

L’ultimo aspetto che ho voglia di condividere riguardo alla finale è la lettura – ampiamente dibattuta sui giornali sportivi e non solo – che vede la squadra che ha vinto (il Portogallo) riuscire nell’impresa proprio nel momento in cui colui che ci si aspettava come l’uomo capace (da solo) di cambiare le sorti del match è stato messo fuori gioco da un infortunio. Mi riferisco alla bellezza di una squadra che è stata capace di far diventare opportunità il più grande dei problemi, cioè trovarsi privata del suo giocatore più forte dopo pochi minuti. Una splendida metafora dell’importanza di farsi squadra e non aspettare solo i risultati offerti dalle gesta del singolo.

Questo progetto d’inchiesta nasce dal tentativo di “provocare” una serie di interlocutori sulla possibilità di essere di fronte all’ultimo Europeo. Brexit, terrorismo, stagnazione secolare, crisi dei rifugiati sono alcune delle interferenze che incidono anche sulla serenità dell’evento sportivo, alterandone il significato o almeno la percezione. Come ci rivedremo (se ci rivedremo) tra quattro anni?

Questa domanda va posta avendo la consapevolezza su come è stato immaginato il prossimo Europeo. Tredici città che ospiteranno – per la prima volta in forma itinerante – la manifestazione. Suona estremamente curioso notare che, tra le altre cose, la finale è prevista a Londra, a Wembley. Un’idea meravigliosamente innovativa di una contaminazione europea per una manifestazione che si chiama “Europeo” – ottima per descrivere anche un piano economico più sostenibile e diffuso, non essendoci opere faraoniche da realizzare e potendo lavorare sull’esistente – che descrive una filosofia nuova per un evento che possa essere la somma di un puzzle di tredici diversi luoghi in cui ciascuno porta un contributo. Certo questa ipotesi suona un po’ stridente, che la finale di questo percorso – sportivo e non solo – si svolga a Londra, in un paese che ha appena scelto di lasciare l’Unione Europea.

 

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