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Una crisi lunga dieci anni, un laboratorio sul presente

Forse la nostra attenzione deve oggi soffermarsi su quegli aspetti che ci permettono una verifica critica della politica organizzata, così come questa si va costruendo da molto tempo a questa parte, ovvero in una modalità conosciuta come “liquida”.

Cercherò quindi di utilizzare la crisi capitolina in corso, che in verità dura da oltre dieci anni, per tentare di comprendere alcuni motivi strutturali che stanno alla base di queste profonde difficoltà.

Vediamo di elencare alcuni di questi motivi con descrizioni poco più che sommarie:

1) la sindaca (ma potrebbe anche essere il premier o il governatore), avendo accumulato, con il trionfo elettorale, una notevole forza d’urto (il 67% degli elettori), invece che spendere tale forza in modo inclusivo, e sarebbe stato possibile, la utilizza per assemblare un gruppo dirigente sconclusionato che però risponde solo a sé, e a nessun altro. I vertici di queste forze politiche sono infatti ossessionati dall’idea del nemico interno. Un’ossessione alimentata ad arte dalle “cinture protettive” (cerchi magici, capi di gabinetto, superassessori, etc.) che essi stessi hanno costruito e che, a loro volta, con questa ossessione, rafforzano anche la propria posizione e la propria sfera d’influenza attraverso la paura del vicino. Nel giro di poche settimane questo nodo scorsoio si stringe velocemente attorno ai vertici e inevitabilmente tende a ridurne la capacità di comprensione della realtà, che anzi diventa fattore di pericolo e sospetto. In fondo, e più semplicemente, è un sistema che si alimenta della sfiducia, da parte degli inclusi, e del risentimento, da parte degli esclusi;

2) questi leader si convincono che, essi stessi, sono la testimonianza di una visione della società e si illudono, con ciò, che questo processo di incarnazione permetta di non esplicitare mai le reali progettualità in campo. Si assiste quindi a soggetti che uniscono il massimo dell’ambizione personale alla totale assenza di reale ambizione politica. E’ possibile nessuno senta mai la necessità di organizzare – attraverso associazioni, fondazioni o scuole di formazione politica – percorsi di conoscenza del territorio che si apprestano a governare? Se prendiamo il caso di Roma è impressionante l’assenza di riflessione sulle dinamiche del territorio da parte delle forze politiche organizzate. Eppure – vedi l’esperienza degli incontri di #PoveraRoma o le bellissime mappe sintetiche di #Mapparoma – attivisti e ricercatori hanno prodotto significative ricerche sul campo. Sembra che pochi sappiano dove si vuole andare, ma molti credono che questa domanda sia priva di senso. Insomma dove va barca, va Baciccia;

3) dopo qualche settimana di governo il panorama politico si intasa di clan e capi-bastone, che affollano le cerchie ristrette, gli assessorati e i consigli comunali. Clan a volte affaristici ma sempre frutto di personalismo vuoto. Gente che trova, da un giorno all’altro, il proprio nome sul giornale, per una dichiarazione o un’inutile presa di posizione, inizia a credere di essere importante. E’ una sindrome quasi schizofrenica che porta a confondere ciò che i media riportano con la realtà. Ci si parla attraverso i giornali e i comunicati. Ognuno crede di essere indispensabile e inizia a discutere con la propria ombra. La cura sarebbe l’autoironia e il senso della misura, virtù assai poco praticate in organizzazioni così temporanee;

4) proprio perché degli amici ci si fida poco, si ricorre assai frequentemente ai tecnici, agli esperti. E in questo modo ci si convince di andare a catturare delle competenze, ma in verità si viene catturati da tecnocrazie (professori, alti dirigenti pubblici, indiscussi esperti di settore, etc) disposte a tutto. Ovviamente i rischi di collusione, conflitti d’interesse, selezione avversa aumentano a dismisura. I “competenti” portano con sé reti di relazione, agende politiche, esperienze, sistemi di valori non sempre orientati nella direzione desiderata. Anzi tendono ad utilizzare l’esperienza amministrativa per rafforzare il proprio network originario, perché la politica, si sa, è friabile e aleatoria. Ovviamente questo processo fornisce argomenti a chi pensa che la politica e il governo siano una questione meramente tecnica, del “saper fare” e non riguardino le scelte realizzate e i conflitti generati. Nella variante PD questa neutralità assume i toni del buon governo e della competenza, nella variante M5S quelli dell’onestà e della buona fede. Ma sempre lì siamo;

5) ovviamente, data la totale discrezionalità di questo processo, si cerca di oggettivarlo attraverso la ridicola trafila della valutazione dei curricula. E qui Marino e la Raggi hanno dato il meglio: un nome vale un altro e la sarabanda di candidati non prevede mai valutazioni, che dovrebbero essere ovvie, di ciò che questi pensano, delle loro visioni di città. Ma quale folle potrebbe mai assumere un assessore al bilancio, vero snodo di un governo cittadino, attraverso una valutazione di CV in competizione tra loro? Questa sceneggiata purtroppo produce danni, non solo perché ci si abitua a una menzogna che copre verità ben più tristi, ma perché si contribuisce a depotenziare ulteriormente il ruolo della politica;

6) anche il tanto evocato rapporto con il territorio viene sublimato dalla relazione e l’ingaggio delle associazioni. Ogni tanto si assiste alla promozione, con incarichi pubblici, di qualche esponente civico sperando in tal modo di migliorare il rapporto con la città e rafforzare le proprie antenne sul “reale”. In verità l’esito di questi tentativi non è molto dissimile dal rapporto con le tecnocrazie. Le associazioni soffrono per lo più di un’ossessione per le piccole differenze e sono sempre tentate di mettere se stesse al centro del mondo. Convinte ormai che la propria azione si definisca come direttamente politica (quella delle azioni concrete, in contrapposizione a quella, ritenuta, molte volte a ragione, fumosa, dei partiti) hanno smarrito del tutto l’idea che la politica rappresenti una dimensione più ampia di quella frequentata quotidianamente. Una sfera che richiede negoziazione sociale, mediazione, analisi e trasformazione dei rapporti di forza. Oggi anche i civici vanno considerati, a loro modo, esperti e apprendono immediatamente – come dimostra il caso Vignaroli – le opache regole del potere e le sue trappole. In ogni caso è interessante notare come la nuova amministrazione, pur evocando costantemente i cittadini, non sia stata ancora in grado di chiamare a raccolta, a propria difesa, le forze vive della città, mettendo così in dubbio che il suo recente trionfo sia la conseguenza di un processo di mobilitazione collettiva;

7) il famigerato rapporto con i poteri forti diventa quindi un alibi o una clava da utilizzare alla bisogna, ma in verità nessuno sa di cosa e di chi si stia parlando. Non è dato sapere se parliamo delle società immobiliari, dei fondi d’investimento internazionali, delle holding pubbliche, dei mass media, dei grandi gruppi della sanità privata, delle grandi società pubbliche oggi privatizzate, delle burocrazie, del Vaticano, delle reti occulte (Opus dei, Massoneria, etc) o dei poteri criminali. Non ci sono analisi concrete delle forze in campo, del loro raggio d’azione, delle poste in gioco, delle sfide da affrontare. E anche questo è parte integrante del deficit di conoscenza accumulato nel corso degli anni;

8) la legittimazione di tutto questo processo, che rischia di percorrere dinamiche caotiche, richiede il coinvolgimento, ormai quasi obbligatorio, di magistrati, procuratori contabili, consiglieri di stato, ex prefetti, insomma figure autorevoli che forniscano quelle garanzie che la politica ormai non trova più in se stessa. La legalità è diventata un feticcio ideologico di una politica vuota e non viene considerato, come dovrebbe essere, un metodo: richiede quindi un ruolo di garante che viene interpretato, al meglio, da figure come quelle sopra individuate. Anche in questo caso si tratta di soggetti che parlano più ai loro pubblici che alla società, più alle corporazioni di provenienza che agli elettori. La presenza di un magistrato garantisce inoltre circa i buoni rapporti con le procure, fattore chiave in epoca di populismo penale, dove le informazioni o i silenzi sulle indagini in corso possono garantire, o meno, la continuità di un’esperienza amministrativa.

L’amministrazione Raggi si è solo dimostrata veloce nel percorrere tutte le stazioni di questo calvario.

Il rischio è però di credere che tutto questo sia dovuto all’inesperienza, all’incapacità e all’improvvisazione della nuova amministrazione capitolina. Basterebbe ricordare la recente esperienza della giunta Marino e l’inconsistenza dell’attuale opposizione per riflettere criticamente sulle alternative possibili alla situazione attuale.

Non è facile uscire da questo circolo vizioso, dove ciascuno sembra rafforzarsi solo delle debolezze altrui.

Servirebbe una dose di creatività politica e di generosità che, a partire da testimonianze che agiscano con capacità prefigurativa, inizi a tessere una rete di relazioni tra quelle associazioni territoriali che, nei fatti, stanno tenendo in piedi la città, ne curano i beni comuni e le comunità, producono conoscenza, e che, con un volo pindarico, dovrebbero mettere in gioco e sperimentare la propria capacità di governo.

E’ un vero patto di cittadinanza che, è meglio dirselo subito, corre enormi rischi di fallimento perché, in giro, di tessitrici e tessitori, se ne vedono pochi. In questi periodi difficili e interessanti altre strade non ci sono.

 

* Silvano Falocco, Scuola Politica Danilo Dolci – Roma

1 Comment

  1. Lorenzino ha detto:

    Tutto vero quello che dice Silvano Falocco. Condivido pertanto l’affermazione che il ruolo dei Movimenti e delle Associazioni sono importanti ingredienti per la democrazia. Nel senso del controllo della delega della volontà popolare, fornita agli eletti, dopo che si è votato.
    Ma se non si avvia una seria riflessione sul binomio tra democrazia delegata e democrazia diretta e non scaturiscono proposte concrete che vadano verso lo scioglimento di questo nodo importantissimo, penso che rimarremo sempre in questo stallo.
    Oggi gli strumenti per un miglior coinvolgimento dei cittadini alle decisioni politiche dei delegati, nell’intervallo che va tra una elezione e l’altra, ci sono; esempio: internet, potere di revoca, ecc.
    A questo proposito riporto una riflessione di Rousseau che già profeticamente si poneva questo dilemma, naturalmente con tutti i limiti, dovuti all’epoca storica nella quale si trovava ad elaborare.
    Rousseau, La critica della democrazia rappresentativa
    “L’unico modo per formare correttamente la volontà generale è quello della partecipazione all’attività legislativa di tutti i cittadini, come accadeva nella polis greca: l’idea che un popolo si dia rappresentanti che poi legiferano in suo nome è la negazione stessa della libertà”.
    J.-J. Rousseau, Il contratto sociale III, 15
    La sovranità non può essere rappresentata per la medesima ragione per cui non può essere alienata; essa consiste essenzialmente nella volontà generale, e la volontà non si rappresenta: o è essa stessa o è diversa, non c’é una via di mezzo. I deputati del popolo non sono dunque, né possono essere, i suoi rappresentanti, ma soltanto i suoi commissari: non possono concludere nulla in maniera definitiva. Ogni legge che il popolo in persona non abbia ratificata è nulla, non è una legge. Il popolo inglese ritiene di esser libero: si sbaglia di molto; lo è soltanto durante l’elezione dei membri del parlamento. Appena questi sono eletti, esso è schiavo, non è nulla. Nei brevi momenti della sua libertà, l’uso che ne fa giustifica davvero che esso la perda.