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Un vocabolario, dalla prossimità al mondo

Incomprensioni – Dove impatta il “rancore” che il Censis ha descritto nel suo ultimo rapporto annuale? Aldo Bonomi ne parla da almeno dieci anni. E’ il sentimento di rabbia diffusa, latente, viscerale che avvelena le comunità e le relazioni che le compongono. Solo apparentemente si tratta di piccoli segni, di quotidiane incomprensioni, di lievi difetti di comunicazione. Sono invece il sintomo più evidente e pericoloso della crescente incapacità di agire la mediazione dei conflitti, di garantire spazio all’altro, di praticare la condivisione.

Manca un vocabolario comune e mancano le chiavi per farne un buon uso. Un vocabolario che tutti riconoscono per potersi confrontare nelle differenze. Servirebbe qualcosa che assomiglia a Wikipedia – ma ancora più potente e inclusiva, un commons – affinché ognuno possa essere protagonista nel dare significati sempre più preciso alle parole che ogni giorno usiamo.

Cosa intendiamo oggi con il termine politica? È la rovina del mondo o la più credibile soluzione ai problemi che lo attraversano. Cosa intravediamo nei flussi migratori che sfidano mari e confini? Una minaccia al nostro stile di vita o l’avanguardia di una possibile rivoluzione planetaria che ambisce a produrre un nuovo umanesimo su scala planetaria, capace di fare i conti con i limiti delle risorse, con la sostenibilità ambientale e sociale, con rinnovate forme di solidarietà e mutualismo? Cosa sono autonomia e autogoverno dei territori? Un privilegio? Un anacronistico retaggio di un passato localista? Oppure uno strumento credibile per il governo di una realtà nella quale – come ricordava spesso Alessandro Leogrande, giornalista e intellettuale finissimo, da pochi giorni prematuramente scomparso – «non si tratta solo di usare con più attenzione le parole, ma di ritornare alla politica, ripoliticizzare le parole». Farlo significa ri-dotarci dello strumento fondamentale per l’interazione con l’altro e credere nel tentativo di fare insieme, facendo un passo oltre il rancore.

Altrove – Quante volte è stato usato in politica il termine esodo, inteso come necessità di sottrarsi all’esistente per immaginarsi e immaginare altro. Dentro la “metamorfosi del mondo” descritta da Ulrich Beck dobbiamo fare i conti con una transizione politica nomade, che di villaggio in villaggio richiede di praticare un costante corpo a corpo con la realtà e con le sue numerose contraddizioni. Va cambiato il campo di gioco, perché quello attuale è in molte parti impraticabile. Serve evadere dai contorni dentro i quali la partita si svolge. E’ un fatto; ciò che di innovativo sta avvenendo a livello culturale, sociale e politico si realizza sempre più spesso forzando le coordinate date nella precedente fase. Le pratiche innovative – in qualunque ambito, sia quando queste ci appassionano oppure spaventano – sono frutto di anomalie, di tentativi che eccedono la normalità e che mettono sotto stress gli schemi ai quali siamo abituati.

Viaggio – Il rischio maggiore che corriamo è quello di naufragare in porto, senza nemmeno aver puntato la prua della nave (o anche solo quella di una sgangherata zattera) verso il mare aperto. Mauro Magatti in un recente articolo su Avvenire ha fotografato così il tempo che stiamo vivendo:

«Con la globalizzazione siamo entrati nel grande oceano planetario. Per un primo periodo la navigazione può essere apparsa facile e attraente: in presenza di un’unica corrente che spingeva tutte le imbarcazioni al largo, l’unica richiesta era quella di approfittare di qualcuna delle crescenti e (teoricamente) illimitate possibilità che la nuova situazione portava con sé. Poi, nel 2008, è arrivata la tempesta e molte imbarcazioni sono naufragate, causando numerosi morti e feriti.

Oggi la tempesta è passata, ma siamo tutti in mezzo all’oceano, con un mare che è diventato difficile e minaccioso. Per navigare in questa nuova situazione occorre riconoscere di essere tutti sulla stessa barca, organizzare bene l’equipaggio, dotarsi degli strumenti necessari, liberarsi dei pesi inutili. Insomma, imparare a tenere il mare e darsi una rotta».

Quando il “Viaggio nella solitudine della politica” è iniziato aveva questo obiettivo, pur su una scala per noi più praticabile, quella della nostra prima prossimità. Percorrere un pezzo di strada con altre persone che cercavano una rotta nuova da sperimentare, un’ipotesi sulla quale aguzzare l’ingegno, un terreno comune nel quale sentirsi a proprio agio.

Solitudine – Siamo partiti dalla solitudine. L’abbiamo intesa come caratteristica del vivere contemporaneo. Sfarinamento della dimensione collettiva, parcellizzazione delle vite, tendenza al rinchiudersi in sé. Non ci è però sfuggita nemmeno l’opportunità di utilizzarla come necessaria e funzionale presa di distanza dalle cose per poterle osservare meglio, senza obblighi nei confronti di nessuna posizione di rendita o di cieca fedeltà.

Urgenza – Alla solitudine si accompagna l’urgenza. L’urgenza di interrogarsi sulla situazione, locale quanto globale, che intorno a noi si stava – e si sta – delineando. Nulla a che vedere con l’emergenza di cui sentiamo sempre più frequentemente invocare. Emergenza migranti. Emergenza terrorismo. Emergenza banche. Emergenza astensionismo. Emergenza lavoro. Emergenza giovani. Emergenza dell’emergenza dell’emergenza.

L’urgenza è il sentimento che impedisce oggi di tirarsene fuori, di lasciar correre, di pensare che tra il passato e il futuro, tra “il non più” e il “non ancora” continui a esistere un’illusoria continuità che attende solo di riproporsi dopo una fase di crisi. Il “Viaggio nella solitudine della politica” è nato dall’idea di mettere invece insieme idee e persone convinte che serva un cambio di sguardo per mettere a punto, come abbiamo scritto nel documento che convocava questo incontro, “un racconto inedito perché capace di interrogarsi allo stesso tempo sulla nostra impronta ecologica e sulla cultura del limite, di ripensare i bisogni e il lavoro per soddisfarli, di far tesoro del passato, di costruire relazioni come condizione per stare al mondo, di re-immaginare i nostri stessi assetti istituzionali adeguandoli ad un tempo insieme sovranazionale e territoriale a cominciare dalla cittadinanza europea e mediterranea.”

Tempo – Un tentativo, quello che proponiamo, che sembra fare a pugni con il ritmo al quale le nostre esistenze sono sottoposte. Di accelerazione e alienazione parla Hartmut Rosa in un suo prezioso libro:

«Nel periodo post-moderno – almeno nella società occidentale – l’accelerazione non assicura più le risorse che permetterebbero all’individuo di realizzare i propri sogni, obiettivi e progetti di vita e alla politica di realizzare una società fondata sulle idee di giustizia, progresso, sostenibilità, ecc.; semmai si verifica l’esatto contrario. Sogni, obiettivi, desideri e progetti di vita dell’individuo vengono utilizzati per alimentare la macchina dell’accelerazione. Per i soggetti la sfida principale è diventata guidare e plasmare la propria vita in modo da riuscire a “rimanere in gara”, a restare competitivi, a non cadere dalla ruota».

Corriamo perché ci viene detto che c’è bisogno correre, qualsiasi sia il risultato di questo incedere che non accetta pause, che non prevede andature sotto ritmo e che concentra ogni propria attenzione sull’istante che stiamo vivendo. Il viaggio che abbiamo intrapreso si è dato i tempi distesi dell’ascolto e – anche nella giornata di oggi – ci vogliamo dare lo spazio necessario per approfondire, per andare oltre la superficie delle questioni.

Utopia – Oltre a dilatare il tempo dobbiamo trovare il coraggio di riscoprire l’utopia. Sinonimo di radicalità (non come vezzo, ma come attitudine al cambiamento e ambizione di non accontentarsi) oltre che di futuro e sogno. Concetti che non appartengano al campo dell’astrazione ma sanno essere motori di trasformazione concreta. Nei giorni scorsi Alessandro Gilioli rifletteva della crisi della sinistra e lo faceva citando “Il cielo sopra Berlino” «Quando il tendone è stato smontato e il circo se n’è andato, Marion rimane sola in quel luogo vuoto, e si sente senza radici, senza storia, senza Paese. Eppure proprio questo senso di vuoto sembra offrirle la possibilità di una trasformazione radicale. “Non ho che da alzare gli occhi e ridivento il mondo”, dice mentre guarda un jet attraversare il cielo». Siamo pronti a ridiventare mondo? Cosa significa imboccare questa via utopica?

Curiosità – Rutger Bregman, giovane studioso olandese, ci ha provato. Il suo ultimo libro, “Utopia per realisti”, accetta la sfida di miscelare due ingredienti che apparentemente non si dovrebbero trovare nella stessa cucina. Come? Applicando le visioni alle buone pratiche che sui territori non mancano e facendo diventare le buone pratiche pezzi di quella visione lunga di cui abbiamo disperato bisogno. Esprime la sua idea – corroborata da dati e studi particolarmente accurati – su come affrontare una possibile trasformazione del welfare state e più in generale come rivoluzionare (realisticamente) il modo con cui approcciare lavoro e diritti sociali, sviluppando inclusione e solidarietà.

Bisogna “cambiare l’ordine delle cose” dice Andrea Segre quando riflette dei fenomeni migratori e delle loro motivazioni profonde. Lo stesso principio – che mette in dubbio lo status quo dentro il quale fino a oggi siamo cresciuti – lo dovremmo applicare a ogni questione che ci si presenta davanti agli occhi. Per farlo serve allenare la propensione alla curiosità, intesa come capacità di lasciarsi guidare dalla meraviglia.

Paradigmi – E se al crescere del PIL, metro sballato con cui continuiamo a misurare il mondo, non corrispondesse la creazione di posti di lavoro e una efficace redistribuzione della ricchezza? E se con il rafforzarsi dei grandi portali della sharing economy non avanzasse un altrettanto vitale capacità della società di essere più cooperativa e solidale ma solo un modello economico accentratore ed estrattivo? In un’epoca di transizione come questa una delle caratteristiche che emerge con maggiore insistenza è l’imperfezione. Un’incertezza che ci accompagnerà ancora per diverso tempo. Almeno fino a quando non saremo transitati dentro nuovi paradigmi. Cambiarli significa avere a che fare con il tradimento, con il perdere la strada che fino a oggi abbiamo intrapreso per cercarne una migliore.

Il tradimento assume la caratteristica di atto di rottura volto alla generazione di nuove opportunità, all’apertura di diversi scenari possibili, lì dove l’ignoto è più interessante (e più utile) del conosciuto. Se della transizione in atto – il cui inizio per comodità possiamo fissare con l’avvento della grande crisi del 2007/2008 – non vediamo la fine, anche e soprattutto per colpa nostra, è perché quella che dobbiamo cercare non è la comunità “che fu” ma quella “che viene”. Una comunità che, nell’epoca dell’accelerazione come mantra, ragiona sulla necessità di darsi il tempo e di trovare il modo di stare insieme, restituendo valore all’incontro e alle relazioni. Una comunità che la politica, chi altrimenti, è chiamata ad accompagnare dentro le importanti sfide di questi “tempi interessanti”.

Qualche esempio di cambio di paradigma? La ridefinizione della nostra insostenibile impronta ambientale rinunciando al mito stanco e non più praticabile della crescita infinita. Una nuova, più strutturata e propositiva, relazione tra centri urbani, periferie e aree interne per garantire miglior vivibilità in ognuno di questi ambiti. Un dialogo virtuoso tra lavoro, tecnologia e modelli di welfare, alla ricerca di un equilibrio che il consunto paradigma lavorista non riesce più a garantire e forse nemmeno immaginare. La messa in crisi del monolitico rapporto con gli Stati nazionali, con il rumoroso codazzo di patrie e patrioti, bandiere, inni e orgoglio indentitario. E ancora l’armonizzazione dei rapporti tra generazioni, generi e identità etnico/culturali e la ricerca di più raffinate e aperte piattaforme politiche, capaci di favorire il protagonismo di corpi intermedi rigenerati e cittadini maggiormente consapevoli del proprio ruolo, oltre che dei rischi e delle opportunità che il disordinato pianeta che abitiamo genera.

Limite – C’è un paradigma che merita particolare cura: il limite. Il nostro approccio a riguardo è schizofrenico. Da un lato abbiamo introiettato l’immaginario “no limits” – ricordate le pubblicità degli orologi Sector – e dall’altra invece siamo prontissimi a rafforzare i limiti altrui (sotto forma di confini, fisici o relazionali) laddove crediamo in questo modo di difenderci dall’interazione con l’altro e dal rischio che quell’interazione metta in discussione lo status quo, l’abitudine, il conformismo nei quali ci rifugiamo, presumendo di esser così al sicuro, almeno per un altro po’.

Un approccio nuovo a questo tema fa i conti con il contesto a geografie variabile che fa dell’interdipendenza tra territori e persone un tratto fondamentale di quest’epoca. Siamo chiamati a riconoscere dei limiti dentro i quali rientrare (collegati al nostro modo di stare al mondo predatorio e individualista) e renderne altri più porosi e mobili – i confini statuali, le certezze identitarie e ideologiche, le barriere relazionali -, praticando uno strabismo che molto ha a che fare con il tema di questo incontro e la proposta che ne sta alla base.

Autonomia – Trento, Barcellona, Sarajevo, Roma, Milano, Venezia, Belluno, Edolo, Val di Susa, Val dei Mocheni, Trieste, Bruxelles, Pieve di Soligo. Da ciascuno di questi angoli visuali abbiamo avuto conferma che il tema da mettere sul tavolo è la crisi degli Stati nazionali, inadeguati tanto ad affrontare le grandi sfide globali del nostro tempo quanto ad interloquire con l’inquietudine dei territori attraversati dai flussi e dalle conseguenze di una globalizzazione che è sinonimo dell’onnipotenza dei mercati e dell’invasività dei poteri finanziari anziché di un nuovo umanesimo e di una nuova cittadinanza planetaria.

Partire dai territori. Dalla prossimità, dalla responsabilità condivisa, dalla coscienza dei luoghi, dalla consapevolezza di essere parte di una comunità di destino – per definire una sovranità cooperante (e non al contrario rivendicata come proprietà indivisibile) su un campo più ampio, quello dell’Europa. Non solo geografica ma politica, che si rimette in moto sulle basi di un’ipotesi federalista. Il Trentino-Alto Adige avrebbe potuto contribuire a questo orizzonte indirizzando la recente riforma dello Statuto di Autonomia in questa direzione. Non ha saputo farlo.

L’autonomia è infatti parte integrante di una straordinaria tradizione di autogoverno fatta di gestione comunitaria dei beni comuni e delle proprietà collettive, di partecipazione e di assunzione di responsabilità, di mutualismo e di solidarietà, di valorizzazione dei territori e delle loro unicità. Rappresenta altresì la possibile risposta verso una globalizzazione che distrugge le biodiversità e impone sempre più forte l’omologazione. Certo, non basta evocarla. Richiede un nuovo racconto e più voci che si facciano carico della sua scrittura.

La destra populista ne possiede uno. È facile perché semplificato: “Prima noi”. E’ l’idea che una parte dell’umanità debba essere condannata alla marginalità. E’ la riproposizione dell’ipocrisia novecentesca fondata sull’idea di crescita infinita e stili di vita non negoziabili per alcuni (noi) e la riduzione a “scarto” degli altri. Una logica insostenibile e autodistruttiva.

Europa – Autodistruttiva come l’idea che la conseguenza inevitabile della crisi del presente e dei suoi strumenti di governo democratico sia quella di tornare indietro, ridando centralità agli Stati nazionali a discapito di una maggiore e migliore integrazione (almeno) europea. Un passaggio che confermerebbe quanto poco impariamo dalla storia. Vivere per addizione scrive Carmine Abate riferendosi alla capacità dei viaggiatori, di chi si muove sopra i confini e dentro la molteplicità di identità che si toccano e si contaminano, di fare tesoro dell’esperienza e di trasformarla in vita quotidiana e prospettiva di futuro. Non solo quindi una ristrutturazione della governance ma una più profonda definizione del sentirsi europei e del pensare europeo, oltre le gabbie nazionali e pure continentali, alla ricerca di una cittadinanza realmente e convintamente cosmopolita.

Non è forse questa – sfidando la retorica dello scontro di civiltà – l’opzione che dobbiamo mettere in campo per riformare radicalmente la globalizzazione? Servirà fantasia per mettere mano alle caratteristiche della governance europea che fa già moltissimo (tracciando la strada in molti settori, con diverse gradazioni di successo) ma che è ancora limitata dai veti incrociati degli Stati e dal metodo di decisione intergovernativo. Serve uno scatto, un colpo d’ala. Non è sufficiente far riferimento, come ha spiegato Etienne Balibar in occasione del conferimento del premio Hannah Arendt per il pensiero politico, ai simboli dell’Europa che è stata o che è – la generazione Erasmus, i fondi strutturali, la “pace” garantita nell’ultimo mezzo secolo, le competizioni sportive – ma ambiziosamente mettere in moto quella che dovrebbe a tutti gli effetti essere una nuova fase costituente. Serve un nuovo Manifesto di Ventotene e serve una sua applicazione.

Coalizioni – Chi possono essere i nuovi costituenti? Roberto Esposito ha definito questo il tempo della politica del rifiuto, dove e più semplice – e produce maggiore riconoscimento e consenso immediato – indebolire il proprio avversario piuttosto che costruire alleanze capaci di mettere in campo idee, visioni, progetti a lungo termine. In un periodo in cui prevale la voglia di dividersi e in cui a farla da padroni sono i sentimenti di odio e di nemicità il termine coalizione non riesce ad andare oltre l’obbligatorietà – sulla base spesso esclusivamente di convenienze di piccolo cabotaggio – determinata dalla legge elettorale in vigore.

Non dovrebbe spaventare – ma anzi dovrebbe essere prima e fondamentale mansione di chi agisce la politica – l’idea di dare forma a coalizioni ampie e molteplici, magari inaspettate. Coalizioni culturali e sociali. Luoghi che tengono insieme e che sperimentano nuove reti di fiducia reciproca, che mescolano e trovano punti di sintesi, che procedono per tentativi e per questo possono essere unico e vero motore dell’innovazione, nella dimensione locale come in quella globale. Coalizioni che non intendono la dimensione civica come alternativa ma collegata e propedeutica all’azione politica e si fanno promotrici di processi costituenti, non guardando agli orizzonti che riuscivano a raggiungere gli occhi – pur ben allenati e curiosi – dei costituenti novecenteschi ma quelli di cui avremo bisogno per i prossimi cinquant’anni. Sono coalizioni, ancora frammentate e per molte parti sommerse, che non guardano con nostalgia al passato con il sogno (irrealizzabile e pericoloso) di tornarci ma progettano il futuro con l’ambizione di realizzarlo.

… (puntini di sospensione) – Invidio chi possiede certezze monolitiche, chi non sente mai sorgere dentro di se il dubbio. Applicare alla vita puntini di sospensione per me significa mettere da parte la formula “senza se e senza ma”, tanto pomposa quanto stupida e sforzarsi di stare dentro i processi.

«Svincolarsi dalle convinzioni, dalle pose, dalle posizioni…» canta Morgan e – nel nostro piccolo – noi proviamo quotidianamente a farlo.

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