Rovesciamenti
23 Giugno 2014L’insostenibilità del nostro modello di sviluppo
14 Agosto 2014Mi viene un po’ da sorridere al pensiero che in questo passaggio di tempo il mio impegno politico si traduce in attività formative e nella presentazione di libri. Non che questo mi dispiaccia, affatto. Semplicemente la mia vita è cambiata e non solo rispetto alla parentesi della scorsa legislatura ma perché è finito un ciclo nel quale abbiamo fatto diversa questa terra.
Una diversità niente affatto scontata, talvolta nemmeno compresa. Non c’era scritto da nessuna parte che il Trentino si sarebbe potuto sottrarre alla deriva della paura e dello spaesamento che ha stretto l’intero arco alpino nella morsa del berlusconismo e del leghismo. Se ciò è potuto accadere, non mi stanco di sottolinearlo, è anche perché la politica qui non è stata la fotocopia di quel che accadeva sul piano nazionale, bensì un laboratorio politico originale che ora però sembra svanito.
Così in questo periodo sono combattuto fra l’amarezza di veder cancellare tratti importanti di quel disegno politico (ne ho già parlato in questo blog) e la leggerezza che mi viene dall’essere sollevato di responsabilità che non siano quelle della mia coscienza.
Forse c’è un tempo per ogni cosa così che il mio contributo di responsabilità credo di poterlo dare nella “bellezza del passare la mano“ di cui vado parlando da tempo a proposito di formazione delle nuove classi dirigenti. Tema che considero cruciale nonché punto debole del ciclo politico che si è chiuso con l’ultima legislatura, che oggi scontiamo nel vuoto non solo della politica ma anche delle istituzioni, dell’economia e della stessa società civile, in un tempo che richiederebbe capacità di analisi e di intuizione, di sperimentazione e di fantasia.
Di tanto in tanto, per la verità, compio qualche piccola incursione nel mondo della politica organizzata, ma solo perché c’è qualcuno che non vorrebbe veder disperso quel patrimonio di idee e di progettualità che ai suoi occhi ancora rappresento. In realtà le logiche di questa politica non solo non hanno bisogno di valorizzare i percorsi che pure ne hanno costituito le – per altro fragili – fondamenta, ma molto più brutalmente vivono tali percorsi (e le persone che ne sono espressione) come un competitore laddove la politica è diventata mero strumento di affermazione personale.
In questa metamorfosi, figlia di varie cose, di un ventennio che ha inciso profondamente nella cultura italiana, dell’incapacità della politica di interpretare le trasformazioni post novecentesche, di processi degenerativi che hanno oltremodo evidenziato l’incapacità di fare i conti con la critica del potere, mi sento estraneo rispetto alle appartenenze di ieri (ed in particolare al PD del Trentino al quale, non so bene perché, sono ancora iscritto) che pure fino a pochi mesi fa hanno occupato una parte importante del mio impegno politico.
Ho invece preferito scegliere un profilo parallelo, quello di lavorare su tempi o modi che oggi appaiono estranei all’azione politica, nella convinzione che la sua crisi non sia quella che le nuove appartenenze post ideologiche tendono ad accreditare (il conflitto generazionale, la legalità, la meritocrazia…) bensì la difficoltà di modificare le nostre chiavi di lettura a fronte di un Novecento non ancora elaborato e di un presente che fatichiamo a decifrare.
Una scelta non solo personale. Il cuore del confronto nel collettivo di “Politica Responsabile“ richiama in qualche modo un disagio diffuso che il recente successo elettorale non attenua, tanto da farci ritenere che sia proprio l’attività formativa, le scuole di formazione politica nei territori, la “winter school“ che a fine anno vorremmo dedicare alla lettura delle città e dei nuovi codici urbani, il progetto di mettere in rete i luoghi della formazione politica che nascono a dispetto del tempo nelle regioni italiane, il cuore del nostro impegno.
Di fare questo intercettando quanto di interessante viene dalla letteratura, dalla poesia, dalla ricerca sociale, storica e filosofica. Quel “passo di lato“ che ci aiuta a guardare al nostro tempo, a darsi una diversa profondità di lettura in grado di comprendere l’interdipendenza, ad interrogarci sulla solitudine dei territori (le “terre alte“ ma non solo) come sul delirio di un fare che si autoassolve in nome del bene.
Ecco perché l’atto di presentazione di un romanzo come quello che Ugo Morelli ha dedicato alla sua Irpinia (Erba cedra e segreti amori1) fra un terremoto e l’altro, assume un profondo valore politico: esprime il bisogno di guardarci dentro, di come sono cambiate le nostre comunità e dello scempio che si è fatto dell’armonia, del lavoro di cura, del senso del limite.
Nell’incontro alla libreria Einaudi di Trento Raffaele Mauro, intellettuale napoletano che da anni vive in Trentino, mi chiede perché quello stesso atto d’amore che ha portato Ugo a scrivere della sua terra d’origine, non potrebbe motivare un libro su questa terra, alla quale pure riconosce il merito di aver saputo usare le risorse dell’autonomia a vantaggio della propria comunità. “Niente come il bianco e nero rende impietose le immagini del territorio“ mi dice riferendosi a quello splendido lavoro2 che Gabriele Basilico realizzò qualche anno fa per conto della Provincia impegnata con l’allora assessore all’urbanistica Roberto Pinter a raccontare la complessità e le contraddizioni del paesaggio trentino. Ne nacque una sterile polemica (e perfino un’inchiesta della Corte dei Conti che si risolse in una bolla di sapone) che ebbe l’effetto di cancellare il valore di quegli straordinari centoquarantatre scatti del grande fotografo scomparso poco più di un anno fa. Non mi stupisce affatto che un ingegnere napoletano possa avere la sensibilità verso il territorio trentino che altri non hanno avuto proprio nel cogliere il valore del racconto fotografico di Gabriele Basilico (milanese) in occasione della presentazione di un romanzo il cui autore (irpino) è fra le persone più attente ed impegnate nell’osservazione del territorio trentino. Non per farne una cartolina o un poster ma per mettere a fuoco l’ambiente dell’uomo, le sue potenzialità come i suoi deliri. Occorre strabismo… E così quella domanda mi tormenta da giorni.
Un ragionamento analogo lo potrei proporre per la presentazione del romanzo di Luca Rastello “I buoni“, cui ho partecipato mercoledì scorso a Roma. Se invece di gridare allo scandalo per aver osato toccare i santi della solidarietà, che solo la coda di paglia può ridurre ad un caso specifico per quanto eclatante ed identificabile, si avesse il coraggio di indagare la realtà di un mondo che ha smesso di interrogarsi sul senso del proprio agire, laddove fini e mezzi confliggono (ma non importa perché tutto questo avviene in nome del bene e della legalità), forse faremmo un atto di amore verso questo mondo. Invece prevale l’arroganza, l’ostracismo, la scomunica. Gli amici della Scuola di formazione politica Danilo Dolci mi raccontano delle pressioni per isolare questo giornalista insolente che ha avuto il coraggio di rendere nude le miserie dell’industria del bene, per di più con la leggerezza di un romanzo.
“…abbiamo bisogno anche di fingere di combattere e di amare la lotta.
Abbiamo bisogno di concedere a noi stessi
ancora un brandello di questa vita che in fondo non ci impegna,
di tenere un francobollo di orizzonte al fondo delle nostre giornate senza cuore.
Ed è don Silvano che ce lo permette: lui garantisce che farà il lavoro al posto nostro.
Tutti lo amano, i potenti, i belli, i celebri e la suora che trema sotto il suo sguardo.
Tutti sono orgogliosi di essere suoi amici. Perché lui cavalca con le insegne del bene.
La sua mano concede a tutti ancora un “Io ho da fare“.
E l’eroe di questo tempo, è la consolazione.
Combatte lui la battaglia che noi non abbiamo tempo di combattere:
non vincerai mai con lui, e neppure gli toglierai la maschera.
Ci sarà una suora a impedirtelo, un politico, un cantante famoso e un ragazzo pieno di ideali.
Lui è il polmone artificiale che li fa respirare anche quando l’aria è carica di acido e gas velenoso,
lui è la vita che ti ha catturato e mostra la sua onnipotenza e misericordia
lasciandoti andare ancora per un po’, che ti permette di continuare a occuparti del lavoro,
dei figli, del partito, di una guerra che scoppia o un amore che ti lascia,
del tuo mestiere di rockstar o del potere che devi ancora accumulare.
Noi siamo l’acqua in cui cresce la pianta, amico mio:
lo difenderemo fino alla morte, pieni di gratitudine per il velo che mette fra noi e il mondo.
Lascialo stare, don Silvano.
Lui si nutre del disperato bisogno di conciliazione che nasce dalle nostre vite in cattività.
Lui è la forma del mondo com’è.
Tu, perché lo servi?
Perché io sono come loro. Mi credi migliore?‘3
Di “circo umanitario“ e di “banalità del bene“ ne abbiamo parlato qualche anno fa con Mauro Cereghini in “Darsi il tempo“4. La risposta di chi percorre con inquietudine le strade della cooperazione internazionale fu positiva, ma il grande pubblico ha continuato a pensare che “angeli si può diventare con 8 euro al mese“. Perché questa è l’immagine che le grandi ong hanno continuato ad accreditare, la logica degli aiuti e dell’emergenza. La cinica esibizione del bambino in sofferenza, per il found reasing di un “progettificio“ sempre più insostenibile… Angeli o demoni?Quella stessa logica che ora vedo diffondersi come la gramigna, senza nemmeno interrogarsi sul nostro modello di sviluppo come origine di fondo di un’insostenibilità che pervade il pianeta, sull’incapacità di elaborazione dei conflitti come questione ineludibile ma che l’industria umanitaria nemmeno si pone come problema, sui processi di formazione delle classi dirigenti. E sulle dinamiche di potere che attraversano i corpi organizzati, ciascuno alle prese con il proprio “don Silvano“.
La presentazione de “I buoni“ affronta tutto questo e anche qualcosa di più, evitando la reticenza tanto attorno allo scandalo di aver toccato “gli intoccabili“, quanto sull’ostracismo che ha accompagnato l’uscita del libro.
E se l’obiettivo era quello di rompere il silenzio attorno all’ipocrisia del bene, il confronto che ne esce coglie nel segno, proponendosi esattamente di fare quel “passo di lato“ da cui sono partito in queste considerazioni, evidenziando la necessità di interrogarsi sul senso che diamo al nostro agire.
Il mattino seguente da Roma raggiungo in auto il porto di Ancona con l’idea di imbarcarmi verso Split (Spalato), in direzione Dubrovnik (l’antica Ragusa adriatica) dove si svolge la terza edizione di “Terra Madre Balcani“ con l’intento di proseguire poi per la Bosnia Erzegovina e la Serbia.
La valorizzazione dei territori, l’unicità dei prodotti locali, il turismo responsabile… in contesti dove tutto volgeva all’emergenza, quando parlare di turismo poteva apparire fuori luogo… temi sui quali ho dedicato un pezzo importante della mia vita che finalmente trovano casa nell’orgoglioso proporsi di agricoltori, di allevatori, di artigiani, di animatori di territorio che raccontano storie intrecciate con i saperi dei luoghi. Credendoci a dispetto di una realtà ancora impreparata, a volte corrotta, altre volte incapace (la nostra) di alzare lo sguardo e scommettere sul futuro. E che oggi inizia ad avverarsi (date uno sguardo al sito www.viaggiareibalcani.net).
Alla fine invece prevale in me la stanchezza (o l’età che si fa sentire?) e faccio rotta verso casa.
1Ugo Morelli, Erba cedra e segreti amori. Zandonai, 2014
2Gabriele Basilico, Trentino, viaggio fotografico di Gabriele Basilico. Nicolodi editore, 2003
3Luca Rastello, I buoni. Chiarelettere, 2014
4Mauro Cereghini, Michele Nardelli, Darsi il tempo. EMI, 2008
1 Comments
certo che l’attività formativa è la chiave di tutto.
Uno può spendersi finché vuole per cambiare le cose, ma se non ci sono orecchie che intendono resterà una pittoresca testimonianza.
Le menti vanno fatte lavorare e inoltre ogni riformatore ha il dovere di preparare una nuova generazione di riformatori, perché quella è la sua vera eredità.
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Il tema urbano è importante. La spinta accentratrice dei nostri giorni non può che fondarsi sul culto delle aree metropolitane e la marginalizzazione di tutto ciò che urbano non è, o non lo è abbastanza.
La cosa interessante è che una porzione crescente del segmento creativo-innovativo della popolazione giovane, raggiunti i 30-40 anni, fugge dalla metropoli. E’ in corso un vero e proprio dissanguamento che contraddice e nega le tesi dei corifei del nuovo ordine globale incentrato sui sindaci delle megalopoli (Richard Florida