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(22 marzo 2016) La crisi della politica – intesa come spazio pubblico che coinvolge l’insieme dei corpi intermedi (non solo i partiti, dunque) – si protrae nel tempo senza che s’intravvedano segnali di inversione, anzi semmai avviene il contrario.
Non mi rasserena affatto pensare che non si tratta di un fenomeno italico. Piuttosto mi conferma nell’analisi che tale crisi non sia (solo) il prodotto di circostanze specifiche, investendo piuttosto il pensiero politico e la capacità di interpretare un tempo nuovo e sempre più interdipendente. Una “crisi di sguardo“ che ci interroga sulla cassetta degli attrezzi, le lenti attraverso le quali leggiamo il presente e le categorie per immaginare il futuro.
In assenza di questa consapevolezza, l’ossessione della politica (o di gran parte di essa) sembra quella di interpretare gli umori, le paure e il rancore degli elettori. Ciò che conta è entrare in sintonia con chi si sente minacciato e insidiato nella propria sicurezza.
E così gli attori dell’agire politico contemporaneo appaiono come le maschere della post-politica: dinastie famigliari, miliardari, demagoghi populisti, attori improvvisati, signori della guerra, esponenti dei servizi segreti…
Qualche giorno fa Beppe Severgnini sul Corriere della Sera parlava del “trumpismo“ come moderno fenomeno che non si limita a dominare la scena politica americana. Immaginando che a breve sarebbe sbarcato anche in Italia.
A pensarci bene semmai è avvenuto il contrario. Il “trumpismo“ è certamente un fenomeno moderno, ma è dalla fine del Novecento che la politica è abitata sempre più da leader inquietanti che giocano con gli umori di opinioni pubbliche costantemente monitorate per conoscerne gli orientamenti e per agire di conseguenza.
Se avessimo compreso la drammatica sperimentazione politica, sociale e culturale che è avvenuta nel cuore dell’Europa dopo la caduta del muro, nelle sue forme più tragiche (Balcani occidentali) come in quelle più soft ma non meno devastanti (la macelleria sociale della deregolazione), forse avremmo potuto essere più attrezzati nel cogliere i segni del tempo. Quante volte ho parlato, in perfetta solitudine, della “balkanska krčma“ (la locanda balcanica), della modernità dei luoghi in cui gli umori diventano rancore ed il rancore progetto politico…
Analogamente, che l’idea di mettere a ferro e fuoco il mondo in nome degli interessi strategici dell’Occidente – in un tempo nel quale andava svanendo il monopolio della forza – non poteva che riempire il mondo di terrore e di morte. Per poi magari riconoscere, tardivamente, che si è trattato di un clamoroso errore, ma continuando a fondare la sicurezza sulla forza piuttosto che sulla giustizia.
I personaggi da operetta sui quali andava il nostro sarcasmo erano in realtà molto più in sintonia di noi con quel che stava accadendo nel cuore di società in preda allo spaesamento e alla solitudine.
E così, senza nemmeno accorgersene, ci siamo ritrovati disposti alla guerra. In nome di modelli di vita considerati non negoziabili, nel nome di uno “scontro di civiltà“ che – per quanto si tratti di un ossimoro – s’invera nell’immaginario e diventa la colonna sonora della paura, nel vivere gli altri in sottrazione.
Abbiamo conosciuto l’inverno della politica. La politica non rappresentava solo lo strumento attraverso il quale esercitare il governo di una comunità. Era chiave di lettura del proprio tempo, era Weltanschauung (visione del mondo), era capacità di mediazione tra interessi specifici, era strumento di pedagogia sociale e di partecipazione collettiva. Come dicevo, non riguardava solo i partiti ma l’insieme dei corpi intermedi nei quali la società tendeva ad organizzarsi.
Sia chiaro. Se tutto questo sembra svanito non è per effetto di un sortilegio. Nella critica della politica avrebbero potuto svilupparsi gli anticorpi alle degenerazioni che abbiamo conosciuto, ma questo esercizio è stato raro e sopraffatto dal fascino del potere, niente affatto estraneo alle maggiori culture politiche che si sono confrontate nella storia.
Invece di curare, ci si è accaniti contro il malato. L’antipolitica ha preso il sopravvento e con essa le maschere alla Trump, dinastie o oligarchie non fa molta differenza.
Come venirne a capo? Come fermare l’imbarbarimento del “si salvi chi può“? Come ricostruire un tessuto di pensiero e azione improntate alla responsabilità e al bene comune?
Non so come rispondere, siamo un po’ tutti in braghe di tela. Ma una cosa mi è chiara, non servono scorciatoie, né furbizie. Credo sia necessario, e a questo rivolgo quel che rimane delle mie energie, un cambio profondo di paradigma. Per farlo è necessario scollinare il Novecento attraverso un lavoro di elaborazione tanto meticoloso quanto urgente per comprenderne, con Arthur Rimbaud, l’intreccio fra “promessa e demenza“ che l’ha segnato. Nel rapporto con la natura, compresa quella dell’uomo. Per ridurne l’inclinazione al delirio. E poi alzare lo sguardo sul presente per saperne cogliere i segni, con il disincanto di chi ha fatto tesoro del passato e la curiosità di chi ama la vita e per questo si dispone alla meraviglia.