Terre sole. ’Fare politica’, un piccolo network abruzzese, territoriale ed europeo
20 Gennaio 2014Post politica
2 Marzo 2014E così, nel tardo pomeriggio di sabato, mi trovo alla Sala della Regione di Trento per un incontro promosso dall’associazione “Trento for Sirya” per un confronto sulla situazione di quel paese a partire dalla testimonianza del cinereporter dalle aree di guerra Sebastiano Nino Fezza, di Nibras Breigheche e di Veronica De Sanctis. L’impianto dell’incontro è molto legato alla solidarietà concreta nei confronti dei profughi che quella guerra sta producendo ma immagino che l’invito che mi è stato rivolto sia dovuto alla necessità di uno sguardo d’insieme su quel paese, la sua storia e il suo futuro. E proprio in questo senso va la mia riflessione.
Propongo tre pensieri. Il primo riguarda il ruolo della Siria nel Medio Oriente, che della regione non è un paese qualsiasi e non solo per la sua estensione. Basta aver letto Samir Kassir o Elias Khouri per sapere che da sempre la Siria svolge un ruolo centrale nello scacchiere mediorientale. E’ stato così lungo la storia se pensiamo che Damasco (con Gerico) è la città più antica del mondo, che lì prima ancora che a Baghdad nacque fra il VIIe l’VIII secolo quel “movimento delle traduzioni” (grazie alla dominazione bizantina, a Damasco la lingua colta era il greco) che portò all’età dell’oro del mondo arabo, straordinario crocevia dei saperi e dei pensieri che portarono alla traduzione dei testi dei filosofi greci, degli alchimisti, degli astronomi e dei matematici che venivano da oriente (persiani ed indiani) e che attraverso il Mediterraneo arrivarono in Andalusia e in Europa. Una storia, quella del califfato di al-Andalus, cancellata dai nostri libri di storia in nome delle “radici cristiano – giudaiche” dell’Europa. Come ho avuto modo di scrivere su questo blog, quanto sta accadendo in Siria ci riguarda. L’idea stessa di bombardare Damasco (come ha già fatto con Baghdad), era come cancellare parte della nostra storia, considerato che quello che siamo come cittadini europei è imprescindibile da ciò che il Mediterraneo ha prodotto nella comunicazione fra Oriente e Occidente.
Il secondo pensiero riguarda le “nuove guerre”. Bombardare è quel che purtroppo sappiamo fare ma, come ci dovrebbe insegnare l’esperienza (anche quella più recente in Libia), le contraddizioni non bisogna tagliarle. Al contrario è necessario abitarle, elaborarle, farle evolvere. E’ quel che hanno provato a fare i democratici siriani per due anni, in una primavera partecipata e nonviolenta rimasta inascoltata. Una primavera che, nonostante la repressione e le galere di Bashar al Asad, per mesi ha rivendicato libertà, democrazia, dignità. E che è stata la prima vittima della spirale violenta che ha preso il sopravvento sulla partecipazione democratica. La storia successiva la conosciamo, è quella delle città bombardate, delle armi chimiche, dei tagliagole. Nelle nuove guerre chi vince e chi perde è piuttosto chiaro. A vincerle sono i criminali, al di là della loro collocazione o appartenenza. A perderle sono le popolazioni civili, le città, la storia, la cultura. Durano anni perché è nell’interesse delle parti farle durare, marcendo nel disinteresse di un’opinione pubblica distratta o che si indigna solo quando i media non mostrano le atrocità. Un’indignazione telefonata e ad orologeria. Tanto che ora, di fronte all’accordo raggiunto sulla distruzione delle armi chimiche del regime e scongiurato l’intervento internazionale, della Siria praticamente non si parla più. Ma questa guerra prescinde dall’uso delle armi chimiche, aspetto che rappresentava semmai la testimonianza di quanto i belligeranti avessero a cuore le popolazioni (come in Kosovo, con l’uranio impoverito). Sulle armi chimiche di Assad apro una piccola parentesi. In un primo momento erano destinate per la distruzione in Albania, tanto gli USA considerano quel paese una loro colonia. Ma la popolazione è insorta ed ora sembra che lo stoccaggio avverrà invece in mare aperto (nel Mediterraneo, per la cronaca) attraverso navi specializzate (?). Non oso immaginare quale sia questa specializzazione, se non i bidoni in fondo al mare (o ci siamo forse dimenticati di come gli aerei Nato scaricavano in Adriatico o nel lago di Garda i loro ordigni al ritorno dalle missioni nei Balcani?).
Il terzo pensiero riguarda il futuro di questo paese (e non solo). In questo contesto i margini di dialogo semplicemente scompaiono e i protagonisti delle conferenze internazionali di pace rischiano di essere i signori della guerra. Vincono i criminali: per questo è necessario che al lavoro di informazione e agli aiuti umanitari si affianchi il sostegno verso i costruttori di dialogo, verso la cultura, verso gli intellettuali che marciscono nelle galere dei regimi. Dare riconoscimento ai protagonisti delle primavere, alle persone che non si sono stancate di cercare il dialogo a prescindere dalle loro appartenenze, alla costruzione di ponti di incontro. Perché costoro abbiano una voce in capitolo nelle trattative di pace e un ruolo nel futuro di questo paese, nelle città e nei villaggi. Se questo non avviene, le guerre non finiscono mai. Magari si smette di sparare, ma il conflitto rimane a mezz’aria, come un gas anestetizzante pronto a riesplodere alla prima occasione. E’ quel lavoro di elaborazione dei conflitti che faticosamente riesce ad avere cittadinanza, nella comunità internazionale come in quelle nazionali o locali, preferendo ciascuno rimanere nella propria narrazione perché, si sa, si può vivere anche di odio e di paura. Per questo è importante indagare la guerra e anche la pace.
Sì, perché questi pensieri pure accolti con attenzione e, così almeno mi è sembrato, condivisione, faticano a trovare cittadinanza, perché il cinismo del “non nel mio giardino” è sempre più diffuso e perché è più facile dividere il mondo in buoni e cattivi (o magari attardarsi a coltivare gli stanchi rituali del pacifismo di maniera) piuttosto che interrogarsi sul nostro presente e futuro (come del resto sulla banalità del male ma anche su quella del bene).