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In Italia, per il momento, pochi sembrano affannarsi a individuare soluzioni pratiche per realizzare questa rivoluzione, anche se la primissima bozza di piano di lavoro per il Recovery Plan titola un capitolo “rivoluzione verde e transizione ecologica” all’interno del quale si passa dall’agricoltura sostenibile all’economia circolare passando per l’efficienza energetica e la mobilità, sostenibile anche lei.

Sgombriamo il campo: il fatto che concetti cruciali come questi siano entrati nel linguaggio corrente e nei documenti ufficiali che segneranno i piani di sviluppo del continente per gli anni a venire deve essere accolto come un segnale positivo e incoraggiante. Finalmente anche l’agenda politica sembra essersi accorta che l’attuale impatto ambientale dell’uomo sul pianeta Terra non può essere protratto all’infinito, pena l’estinzione.

Ci permettiamo però di sollevare un dubbio. Quando è nato il ministero della Transizione ecologica, forse qualcuno si è dimenticato di spiegare che cosa si volesse intendere davvero. Il timore è quello di vedersi ripetere la parabola della “sostenibilità”, passata da essere un concetto dirompente, che interrogava il nostro mondo e lo metteva in discussione, al diventare un termine buono per tutte le stagioni e per tutti gli usi, specialmente per il marketing aziendale.

La transizione ecologica non è una corsa all’avanzamento tecnologico che ci consenta di costruire suv elettrici, incenerire i rifiuti con più efficienza o produrre la carne in vitro. Operare una transizione significa mettersi in testa che l’auto non è il mezzo più adatto per viaggiare, da soli, in città. Che i rifiuti bisognerebbe prevenirli, riducendo packaging e acquisti inutili. Che si può consumare meno carne ma di qualità migliore per mettere fine agli allevamenti intensivi. Che si può fare agricoltura efficiente di prossimità senza dipendere dalla chimica pesante. Che il turismo non deve per forza andare di pari passo con la desertificazione urbana, l’espulsione dei residenti e la crescita esponenziale degli affitti a brevissimo termine.

L’elenco è lungo ma il concetto è semplice: non c’è transizione ecologica senza la consapevolezza, come comunità, che di una transizione vera c’è bisogno. La tecnologia sarà fondamentale per accompagnare questo percorso ma non ci darà tutte le risposte. Se i cittadini non sanno che disegno c’è dietro le parole che vengono loro propinate, queste parole perdono di senso insieme alla progettualità che vorrebbero rappresentare.

Sarebbe stato bello veder nascere a livello nazionale un dibattito su che cosa dovremo aspettarci da qui a vent’anni, su come possiamo immaginarci le nostre città, le nostre campagne, le nostre case, i nostri lavori, i nostri svaghi. La transizione ecologica è cambiamento radicale, e come tale chiede il coinvolgimento consapevole di chi lo deve interiorizzare e realizzare. Nessun cambiamento radicale avviene senza massa critica e, soprattutto, senza gioioso slancio rivoluzionario. Per fortuna, per aprire questo grande dibattito, non è mai troppo tardi.

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