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Tragedie ambientali e cultura del limite

Certo, i terremoti non sono dovuti, per quanto ne sappiamo, all’azione dell’uomo. Ma gli effetti dei terremoti, questi sì che ci riguardano, tanto sul piano della conoscenza delle aree a rischio quanto su quello della resilienza dei manufatti. Come ci riguarda l’innalzamento della temperatura del nostro pianeta dovuta ai gas climalteranti che, in nome della crescita e di un livello di consumi che non intendiamo mettere in discussione, ci ostiniamo a scaricare nell’atmosfera.

Qualcuno potrebbe obiettare che nel corso della storia i cambiamenti climatici che hanno investito la Terra sono stati frequenti, ma è forse la prima volta che tali cambiamenti avvengono per effetto o con il concorso dell’azione dell’uomo e in tempi così rapidi da poter essere percepiti nel corso della vita di una persona.

Basta aprire gli occhi per comprendere che da tempo siamo oltre la sostenibilità. Tanto è vero che dal 1987 consumiamo ogni anno più risorse di quelle che gli ecosistemi riescono a produrre e che nel 2016 il giorno del superamento (l’overshoot day che misura l’impronta ecologica) è stato a livello globale l’8 di agosto.

Solo che cambiare in maniera virtuosa non è facile, condizionati come siamo dalla profonda subalternità dell’uomo alle cose. I diversi paradigmi che si sono confrontati nel corso degli ultimi due secoli avevano in comune di essere figli della stessa cultura positivista. Una subalternità dalla quale fatichiamo a liberarci, proseguendo imperterriti sulla strada che le vicende tragiche di questi giorni non sembrano affatto mettere in discussione.

La fragilità dei nostri territori è lì a dirci che così non si può continuare. Ma provate voi a cambiare la destinazione d’uso di un’area da edilizia residenziale o commerciale a verde e vedete cosa accade. Con i proprietari (e non solo) che ti saltano agli occhi, con la politica (meglio sarebbe dire “questa politica”) che ti prende per un povero idiota e, infine, con la magistratura che, nel rispetto della legalità, ti dice che così si lede un interesse consolidato e che dunque non si può fare.

Città costruite sui pendii di un vulcano attivo come il Vesuvio, borghi e dighe realizzati lungo faglie sismiche, impianti siderurgici sorti nelle vicinanze di aree di particolare pregio naturalistico e storico (solo la follia insita nelle magnifiche sorti progressive poteva arrivare a concepire di realizzare un impianto chimico come quello di Porto Marghera in prossimità di una città come Venezia), basi militari realizzate in siti di straordinario valore ambientale, infrastrutture viarie destinate ad alterare fragilissimi ecosistemi e così via. Per tornare ai giorni nostri, alberghi realizzati sul sedime franoso di una montagna.

L’esito di tutto questo è che siamo in una continua emergenza. Sento parlare di eventi atmosferici imprevedibili e straordinari e allora ritorno alla domanda iniziale: cosa deve accadere per avere coscienza che il clima è cambiato e nulla è più come prima? Se i ghiacciai si ritirano di anno in anno e se sulle nostre montagne l’unica neve è quella sparata dai cannoni dell’innevamento artificiale… se l’Italia centro-meridionale e insulare sono sommerse dalla neve e dall’acqua, tutto questo vorrà pur dire qualcosa?

Fin quando continueremo a pensare che la sostenibilità (parola ormai banalizzata) equivale a ciò che siamo in potere di fare a prescindere dalla riproducibilità delle condizioni che abbiamo ereditato da chi è venuto prima di noi? E che il territorio sia un asino che possiamo caricare senza interrogarci che, così facendo, prima o poi lo faremo schiattare?

Sono proprio stufo di assistere a questa rappresentazione che ci porta da un’emergenza all’altra, nella quale già conosciamo prima ruoli ed attori, fra l’imponderabilità degli avvenimenti, gli interessi in gioco, la noncuranza dei cittadini quando non viene toccato il proprio giardino, l’eroismo dei volontari e un insopportabile rimpallo di responsabilità fra poteri e cittadini. Ed infine il dolore sotto i riflettori della spettacolarizzazione mediatica.

Rompere questo orrendo gioco, questo è necessario. Assumendosi ciascuno il proprio pezzo di responsabilità, non per concorrere a ricomporre una colpa, ma per evitare di ritrovarsi fra qualche mese in situazioni pressoché analoghe. Interrogandosi sulla sostenibilità delle opere, sulla loro localizzazione e sulla qualità nella realizzazione. Rivendicando la responsabilità nelle decisioni anziché delegarle ad istituzioni lontane (e a contributi ottenuti per l’intercessione di qualcuno) e, dunque, potere decisionale e risorse. Educando le comunità all’autogoverno e a comportamenti responsabili. Costruendo reti di protezione del territorio attraverso l’apporto volontario dei cittadini, senza aspettare che qualcun altro se ne occupi.

In queste terre alte e sole, fra le montagne d’Abruzzo come nelle valli bellunesi, in Irpinia come in Valtellina, tanto segnate dall’abbandono e dallo spaesamento, occorre insomma non solo la volontà di rimboccarsi le maniche per ricominciare dopo le tragedie di ieri e di oggi. Servono le capacità, non ultima – come direbbe De Rita – quella di una visione “terranea”, occorre avere coscienza di sé e della propria storia, nel conoscere le fragilità, nel valorizzare le unicità dei luoghi e nell’arte di mettersi in relazione.

Che poi significa liberarsi da una politica che considera i territori come bacino elettorale, per sperimentare finalmente nuove progettualità e inedite forme di azione politica.

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