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Terzo Statuto: processi, incroci, mediazioni, coraggio

Processi. Alto Adige e Trentino hanno scelto approcci diversi per la revisione di un Statuto solo, unico per le due Province. Al bivio trovato al primo passo del cammino hanno imboccato sentieri alternativi, neppure troppo vicini tra loro.

A Bolzano si è partiti da una lavagna pulita e in molti (non tutti) ci hanno scritto sopra qualcosa. C’è chi ha usato un tratto delicato e chi ci ha strisciato con forza le unghie. Un processo bottom-up (dal basso) con tutte le contraddizioni del caso, evidenti anche nel prodotto finale della Convenzione, da molti criticato.

A Trento si è deciso invece di aprire il paracadute prima di lanciarsi dall’aereo che forse, in realtà, non è mai neppure decollato. I membri nominati all’interno della Consulta – nell’idea di partenza rappresentativi della società trentina – hanno tracciato i contorni dell’area di intervento. Un lavoro preparatorio che voleva essere utile a delimitare i confini oltre i quali non spingere lo sguardo. Un eccesso di cautela? Un bisogno esasperato di circoscrivere e di prevenire? Visto l’emergere della grana altoatesina (come tale è percepita da tutti…) c’è chi interpreta il metodo trentino come un salvavita posto a garanzia del funzionamento regolare del dibattito almeno in uno dei due rami del dibattito. Il rischio connesso a questo desiderio di confort e sicurezza era quello di generare un contesto anestetizzato, privo di slanci e visioni, perché molto aderente allo status quo e orientato al suo mantenimento. Un rischio puntualmente diventato realtà.

Se la lavagna altoatesina parla lingue diverse – non potrebbe essere altrimenti – e contiene elementi di difficile conciliazione quella trentina sembra essere persino troppo ordinata, sgombra di appunti e sottolineature estranee e complementari al testo prodotto dalla Consulta stessa. Un materiale senza spigoli certo ma anche, fatalmente, senz’anima. Sottovoce posso dire che la strada intrapresa in Alto Adige mi sembra rimanga molto più interessante e generativa, pur nella sua accesa conflittualità, rispetto a quella trentina, tanto lineare quanto neutra e debole nel sua spinta trasformativa.

Incroci e mediazioni. Ora i percorsi sono obbligati a tornare ad uno. I sentieri si ricongiungono perché la forma (e la legge) richiede questo. Bisogna ricordare che non è da oggi che il ruolo della Regione – uno dei punti messi maggiormente in discussione, soprattutto da nord – è stato progressivamente svuotato di senso. Il secondo Statuto (datato 1972) di questo si occupò, facendo riferimento alle due Province Autonome come ambiti prevalenti, lasciando sullo sfondo – privato di competenze e di valore – il contenitore regionale. E’ difficile pensare che oggi si possa procedere in direzione opposta, rivendicando – da sud – una ritrovata centralità della Regione. Soprattutto se questa richiesta prende le mosse dall’urgenza di trovare legittimazione, a livello nazionale, per una specialità – quella trentina – che non sembra saper articolare altre motivazioni se non il richiamo al rapporto storico con i cugini sudtirolesi e alla tutela delle minoranze linguistiche. Se il compito di mediazione esercitato da Trento si dovesse ridurre a questo tentativo di riconoscimento riflesso, certo il nostro territorio non farebbe una bella figura.

Stesso discorso vale se il richiamo alla moderazione e al necessario compromesso che alcuni membri della Consulta in questi giorni esprimono si risolvesse nell’obiettivo formale di disinnescare – magari cancellandole, o lavorando di lima come spesso avviene nella stesura degli accordi internazionali – le minacce che si intravedono dentro il risultato della Convenzione, dal tema dell’autodeterminazione in giù.

Perché l’incrocio non sia un autoscontro serve che si aguzzi l’ingegno. Bene hanno fatto negli ultimi giorni Franco Ianeselli prima (a fronte di un Trentino trasformato, serve una contestuale capacità di intervento nei vari settori, pena il risentimento e il rancore che già cova) e Lorenzo Dellai poi (serve in questo momento recuperare la fantasia che i padri fondatori seppero utilizzare nella scrittura del primo Statuto) a suggerire uno scarto di pensiero e di azione, che – è bene dirlo – non ci si potrà accontentare sia frutto di un sussulto della rappresentanza politica, ma dovrà coinvolgere – come finora non è avvenuto – il corpo sociale delle comunità.

Coraggio. Maurizio Carta all’inizio della presentazione del suo approccio alla città aumentata utilizza la copertina dell’ultimo album di Roger Waters. “Is this the life we really want?” è il titolo/domanda dell’album. Un quesito epocale, in linea con la necessità – troppo sottovalutata – di accettare questo livello di complessità nell’analisi del presente e nella definizione del futuro. Ci manca il coraggio per farlo. Lo stesso che è mancato di fronte alla sfida del nuovo Statuto di Autonomia. Quel coraggio che dovrebbe suggerire di mettere in dubbio il campo della discussione così come lo si è conosciuto fino a oggi, non accettandone – dandolo per scontato – il perimetro imposto.

Il tema sul terreno, se si possiede un minimo di ambizione, non è la sola conservazione della specialità attribuita al Trentino-Alto Adige in nome di un certo sindacalismo di territorio che molto va di moda (vedasi i prossimi referendum in Veneto e Lombardia) quanto il tentativo di contribuire attivamente alla descrizione di un futuro credibile e diffuso, ben oltre le esperienze attuali, per le autonomie locali.

Un approccio possibile per il governo della complessità del mondo e delle grandi questioni irrisolte che ognuno degli abitanti del pianeta Terra – si trovi a Sagron Mis o a Berlino, a Prato dello Stelvio o a Barcellona, a Belluno o a Londra – sarà chiamato ad affrontare.

“Is this the life we really want?”

 

* dal blog https://pontidivista.wordpress.com/

 

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