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Territorialismo, l’ultimo appello. Quel cambio di paradigma che fatica a realizzarsi.

“La maledizione di vivere tempi interessanti‘ (26)

di Michele Nardelli

La terza puntata di un diario di viaggio attraverso luoghi e persone, fra Toscana, Liguria e Lombardia

(15 settembre 2015) E poi, finita la bella festa di compleanno di Joan, fra una tempesta d’acqua e una di vento che a voler vedere ci dice più di tante conferenze sul clima, andiamo con Gabriella (che nel frattempo mi ha raggiunto a Chiavari) verso Milano dove lunedì si svolge l’annunciato seminario promosso da Giuseppe De Rita, Fabrizio Barca e Aldo Bonomi sul tema Sviluppo locale e territorio.

Lungo la strada che da Vigevano ci porta ad Abbiategrasso, al Lorenteggio fin dentro quella che un tempo si definiva la capitale morale di questo paese, abbiamo un doloroso spaccato di quel che la fine di un modello di sviluppo ha prodotto.

Il degrado delle aree industriali dismesse, degli edifici e delle case abbandonate, comprese le splendide cascine sul Naviglio grande, ci racconta in realtà qualcosa di più della crisi prodotta dalla delocalizzazione delle imprese e dai processi di finanziarizzazione dell’economia. E’ come se l’insieme di un modello produttivo e di relazioni sociali fosse svanito lasciando dietro di sé solo macerie. Tanto che anche i cartelli con la scritta “vendesi“ o “affittasi“, ancora diffusi, fossero una semplice pro-forma che già si sa che nessuno prenderà in considerazione.

La natura, qui nelle sue forme postmoderne, prende velocemente il sopravvento coprendo confusamente di arbusti ed erbacce quel che l’uomo ha prodotto in poco più di trent’anni, un soffio se confrontato con la scala del tempo, ma irreversibile se solo pensiamo ai costi di bonifica di tutto questo spazio cementificato e avvelenato. Il degrado non risparmia neanche le strade, vittime dell’incuria ma anche dalla soppressione delle Province che avevano in capo questa competenza e probabilmente svanita nella furia di rottamazione in chiave populista del vecchio assetto istituzionale.

Il susseguirsi di scheletri è impressionante. Tra gli altri quello della Mivar, la prima televisione di tanti della mia generazione, fabbrica chiusa lo scorso anno lasciando un edificio spettrale di mattoni, ad immagine e somiglianza del suo vecchio proprietario dichiaratamente nazista. Fra le rovine del “secol superbo e sciocco“ scorgo – beffarda – una via dedicata a Giacomo Leopardi.

La lunga coda di automobili procede come un serpente mattutino verso la città. Mi chiedo quali pensieri possano scorrere nella mente di chi quotidianamente si trova a percorrere queste strade e questi scenari, ma so che è molto facile guardare senza vedere.

Quando raggiungiamo il cuore di Milano (la nostra conferenza si svolge presso la Fondazione Mattei in Corso Magenta) tutto sembra tirato a lucido, come se qui fossimo in un altro mondo. I principali relatori della mattinata s’interrogano su quanto spazio sia ancora rimasto in questo lungo passaggio di tempo fra il “non più“ e il “non ancora“ alla riflessione territorialista, a quel diverso approccio che per anni ha cercato di dare cittadinanza alle istanze (non solo di pensiero) dei luoghi nel diffuso immaginario statalista. Una sorta di “ultimo appello“ per quella che qualcuno definisce una “nicchia di pensiero“, destinata – è la mia impressione – a rimanere tale.

La riflessione sembra infatti incartarsi attorno al rapporto fra Stato e territori, come se il cambio di paradigma, che pure emerge come necessità in qualche intervento, rappresentasse un dettaglio. Lo ha ben compreso Aldo Bonomi che lo invoca nella sua relazione, così come nel confronto che segue il professor Enzo Rullani (Facoltà di Economia dell’Università Ca’ Foscari di Venezia) che con ancora più forza invoca questo scarto di pensiero. Ma in che cosa consiste questo cambio fatica ad emergere, forse anche perché questo metterebbe in difficoltà chi fra i presenti ancora pensa alla centralità dello stato nazionale. Perché questa è la questione: andare oltre il paradigma dello stato-nazione.

Invece c’è poca Europa, c’è poco federalismo europeo, questa è la mia sensazione. Del resto qui siamo nell’ambito di Expo 2015, delicati equilibri e delicate compatibilità. Ma se i territori vengono sorvolati dalla politica nazionale (fuori scala e per questo in crisi) e per il combinato disposto fra il centralismo e le rappresentazioni locali della politica nazionale che hanno inteso il territorio come ambito di potere feudale in chiave altrettanto centralistica, è perché nel vecchio paradigma si è ancora largamente immersi. Paradossalmente più che in passato, quando l’Europa delle regioni era un programma politico. E se i “cacicchi“ di cui parla Giuseppe De Rita tengono in scacco i territori, questi altro non sono che il prodotto di quella cultura neocentralistica e plebiscitaria cresciuta nella crisi della politica e che con la responsabilità dell’autogoverno non ha nulla a che fare. Ne abbiamo uno spaccato in Trentino.

I processi di trasformazione non richiedono scorciatoie. Al contrario necessitano di un paziente lavoro culturale, fatto di ricerca, capacità di sperimentazione, educazione alla responsabilità e, infine, di creatività politica. Ed è forse quest’ultimo aspetto che fatica ad emergere nell’incontro di Milano, anche perché su questo terreno c’è in giro davvero poco o nulla. E, mi permetto di dire, perché se è ammesso (anzi quasi scontato) parlare male della politica, ci si guarda bene dal cimentarsi su questo terreno, opportunisticamente coperti nei propri (piccoli o grandi che siano) ruoli di potere.

Conclusa la mattinata e con queste sensazioni in testa, decido di andarmene verso casa. Il mio piccolo tour volge al termine. Arrivati a Peschiera, scegliamo come via di avvicinamento a Trento la Gardesana orientale che non percorro da tempo. Il lago di Garda, nonostante il carico antropico e troppi anni di governo all’insegna del liberismo (il cui simbolo è la navigazione a motore, proibita nel ramo trentino), mantiene inalterato il suo fascino. Un ambiente mediterraneo alle soglie di quello alpino, una macchia che mi fa sentire ancora per qualche ora nel Levante ligure, il sole che scotta e, improvvisamente, anche qui una tempesta d’acqua e vento. Dovrebbe riportarci al cambiamento climatico di cui c’è consapevolezza diffusa ma non ancora sufficiente per un altro scarto di pensiero che non c’è, la cultura del limite.

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